05-11-2004

 

 

 

Antonello Venditti e Francesco De Gregori, 1972

 

 

‘THEORIUS CAMPUS’

 

 

Ovvero: quando l’incontro tra due antitetiche personalita’ musicali diviene sinonimo di irripetibilita’ ed unicita’

 

 

Roma. 1972. 32 anni fa. Un’altra era. Altra gioventu’, altro spirito. E, soprattutto, altro modo di intendere la musica, lontano anni-luce dalle sciatterie iper-commerciali moderne. … cio’ che sono in procinto di recensire non riguarda complessi di grido in voga in quell’anno, alias PFM, BANCO od i NEW TROLLS di Concerto Grosso, bensi’ un ‘piccolo misconosciuto tesoro’ estratto da un periodo di trasformazione cruciale per il cosiddetto ‘movimento cantautorale italiano’. Eduna cosa, prima che io mi prodighi nell’ennesimo ‘quantum leap’ inter-temporal-musicale: dimenticatevi di chi sono oggi Antonello Venditti e Francesco De Gregori, altrimenti potreste accusare un serio ‘shock uditivo’

‘THEORIUS CAMPUS’ viene concepito all’alba di un decennio tumultuoso e determinante per l’evoluzione sociale del Sistema Italiano, ma, per strano che vi possa sembrare, non ha NULLA a che vedere con i drammatici, perentori sentimenti di profondo credo politico insito nella maggior parte dei musicisti dell’epoca, caratterizzati da un inusuale approccio progressista.

No. ‘THEORIUS CAMPUS’ e’ il parto di due giovanissimi cantautori entrambi membri ed esponenti del leggendario ‘Folk Studio’ di Roma, inesauribile ‘vivaio’ per musicisti emergenti, un ‘combo’ di artisti ed intellettuali di straordinaria levatura che, nel corso degli anni successivi, influenzeranno in modo determinante il concetto di ‘musica cantautorale made-in-Italy’, musica attraverso la quale diviene percepibilissima una ‘personalizzazione dei sentimenti’, unita ad una spudorata emotivita’ nel voler raccontare al proprio pubblico storie di ‘(stra)ordinaria gioventu’’ immersa in un contesto precario e difficile, burrascoso e in perpetuo bilico tra bombe e silenzio, struggenti storie d’amore e feroci invettive politiche, freddo e calore, ermetismo e linguaggio esplicito. Mai, come in quei primi anni ’70, cosi’ alte, sconcertanti ed al contempo costruttive contraddizioni trovano un’amalgama dalla chimica complessa ed avvincente, irripetibile nel suo originale evolversi: la cronaca dei tempi sembra scandire, ‘corrompere’, seppur implicitamente, le ansie ed i turbamenti di milioni di giovani, che forse altro non attendono che immedesimarsi in cantastorie moderni scesi in piazza ad ‘abbracciare’ un dolore comune.

Nonostante a tratti si percepisca una mancanza di ‘unitarieta’ compositiva’, in ‘THEORIUS CAMPUS’ emergono, solco dopo solco, due entita’ distinte, eppure animate dallo stesso spirito di ‘trasmissione emotiva’: sono gia’ presenti quegli inconfondibili passaggi ermetici ed ellittici cari al De Gregori piu’ intimista e ‘classico’, mentre per Venditti vale tutt’altro discorso: anzi, vi stupiro’, affermando, perentoriamente, che e’ soprattutto l’’Antonello nazionale’ ad elevare di statura qualitativa il qui narrato disco: e’ sin troppo evidente che l’autore di ‘Lilly’ e ‘Sotto Il Segno Dei Pesci’ si dimostri fautore di un certo, spiccato gusto melodico, mai banale e retorico, bensi’ impegnato (si!, avete letto bene, ‘impegnato’) ‘bagnato’ di soffusa malinconia, caratteristiche egregiamente espresse da un pianoforte ‘al chiaro-scuro’, sorretto da note calde e gelide allo stesso tempo, ‘scortate’ da una voce tutt’altro che prodigiosa sebbene inconfondibile, ricca di pathos, meravigliosamente ficcante, efficace nei suoi estemporanei, straziati acuti.

‘CIAO UOMO’ apre, magistralmente, un percorso di luci ed ombre che fa da sfondo ad un affresco sonoro minimalista, a meta’ fra i primi sapori agro-dolci autunnali ed il sacro silenzio di soffici, catartici fiocchi di neve mentre scendono sul nostro sguardo assorbito da lenti, spossanti secondi di sospensione spazio-temporale.   Un’incalzante, elegante atmosfera di suggestione che raggiunge il suo zenith con ‘LA CANTINA’ e ‘E’ CADUTO L’INVERNO’ (entrambe composte da Venditti): il pianoforte e’ l’indiscusso protagonista, solenne ed avvolgente, elegante e minimale, sensuale come il bacio di una giovane ed ingenua fanciulla in cerca di affetto e calore; in ‘LA CANTINA’ (mia ‘traccia’ in assoluto prediletta) e’ ‘palpabile’ quella cosi’ (a)tipica emotivita’ espressa da due giovani innamorati, lasciati nel buio di una cantina ideale ‘spettatrice’ di un momento di dorata solitudine, dove effusioni e sospiri costituiscono l’unico elemento sonoro udibile: uno spaccato di adolescenza che assume toni gustosamente surreali, quasi onirici. ‘E’ CADUTO L’INVERNO’ si discosta, invece, dalle sognanti cadenze de ‘LA CANTINA’, onde contemplare la secchezza e fascinosa inespressivita’ di un imminente cambio di stagione: l’intercedere al pianoforte acquista tonalita’ grigie, pervase di tetra malinconia: immagino un uomo in cappotto, che fissa con lo sguardo un campetto di erba spoglia, ‘calvo’ nella sua impossibilita’ di opporsi alle rigidita’ di un tempo plumbeo e proibitivo. Il concitato, in-crescendo finale rivela, da parte di Venditti, anche un certo gusto per arrangiamenti complessi, idealmente a meta’ tra influenze di marca ‘progressive’ e sonorita’ secche e mai debordanti nel pretenzioso e pomposo. Negli anni a seguire il cantautore romano abbandonera’, gradualmente, questo approccio di indiscussa matrice ‘folk/art-rock’, spingendo la propria indole verso territori piu’ smaccatamente commerciali, sebbene non mancheranno rari squarci musicali dalla obliqua espressivita’, in perfetto Theorius-Campus-fashion (il pensiero non puo’ che andare a ‘LO STAMBECCO FERITO’, tratto da ‘LILLY’, best-seller di Venditti, anno di grazia 1975, da annoverare fra le principali gemme compositive del song-writer romano).

Dall’…’altra parte’ dello studio, De Gregori eccelle con ‘SIGNORA AQUILONE’ e ‘DOLCE SIGNORA CHE BRUCI’, che tradiscono il suo innegabile amore per una generazione di icone della musica folk americana, quali Leonard Cohen, Woodie e Arlo Guthrie, Pete Seeger e, naturalmente, l’inventore e massimo esponente di quello storico, imprescindibile filone che e’ il folk-rock: Bob Dylan. Trattasi di brani decisamente piu’ introspettivi ed ermetici rispetto a quelli di Venditti: De Gregori non nasconde quel suo caratteristico, inconfondibile ‘taglio critico’ dalla sferzante ironia e raffinato sarcasmo, dando vita ad elaborate, satiriche ‘vignette’ abbraccianti temi connessi all’ecosistema sociale del tempo, trademarks che confermera’ sempre piu’ perentoriamente negli album successivi, dimostrando una crescita, sia compositiva che lirica, sorprendente. Ma se l’ermetismo degregoriano acquisisce gia’, in tal frangente, uno status autonomo, ‘LA CASA DEL PAZZO’ (sempre di De Gregori) conferisce a THEORIUS CAMPUS inedite, sinistre atmosfere contraddistinte da una nenia ipnotica e suggestiva, ‘colorata’ di gotico ed oscure simbologie: sentimenti in netto contrasto con gli spaccati di sofferenza esistenziale da tardo-autunno espressi da Venditti; ai piu’ essa potra’ sembrare un’insopportabile, scialba, inutile ‘rappresentazione surreal-onirica’, sulla quale si distendono linee vocali quasi ‘assenti’, in totale stato di ‘trance’ e distorsione della mente: al contrario, ‘LA CASA DEL PAZZO’ accentua, attraverso la sua ‘anomalia sonora’, il fascino e magnetismo di un disco che, solco dopo solco, rivela un eccitante scontro di stili e personalita’ in netta, costruttiva antitesi.

Poi… poi ecco riemergere Venditti: ‘L’AMORE E’ COME IL TEMPO’ ricalca l’’appeal’ emotivo de ‘LA CANTINA’, anzi, ne e’ quasi una rivisitazione e aggiornamento, mentre ‘SORA ROSA’ e’ un delicato, commosso omaggio alla tanto amata nonna. LITTLE SNORING WILLY’, di De Gregori, cantata in inglese, e’ un accattivante ibrido di folk e certo country-and-western, dall’arrangiamento crudo e scarno: appare essere piu’ un ‘insolente sberleffo di passaggio’ che una vera e propria composizione. Comunque godibile, nella sua crudezza ed immediatezza. Ed infine, il primo grande ‘classico vendittiano‘, ‘ROMA CAPOCCIA’, sulla quale e’ inutile mi dilunghi in soliloqui celebrativi quanto superflui: tutti piu’ o meno siete a conoscenza della ‘estrema romanita’ dell’autore: sara’ sufficiente andare a leggersi il testo, di per se’ eloquente nel ritrarre una profonda, quasi commovente passione per la grande capitale. 

In conclusione: ‘THEORIUS CAMPUS’ non potra’ (e MAI) dovra’ rappresentare un ‘classico da collezione’ pressoche’ introvabile e quindi estremo sinonimo di rarita’: si tratterebbe di un errore di concetto, in quanto sia Antonello Venditti che Francesco De Gregori, in quel 1972, diedero vita ad una delle collaborazioni discografiche piu’ interessanti ed innovative di sempre.

…e, come talvolta accade per certe ‘opere prime’, questo lavoro rivela una indiscussa, a tratti destabilizzante carica di magnetismo: si avverte, spesso, un opprimente desiderio di rimanere incollati a quelle ‘pesanti’ note di piano ‘tardo-autunnali’, quasi si trattasse di un’elegia al nostro impareggiabile senso di solitudine nonche’ alla spossante suggestione di rimanere schiavi di un passato che avremmo voluto ardentemente vivere e … ‘possedere’.

In altre parole: quando l’incontro tra due antitetiche personalita’ musicali diviene sinonimo di irripetibilita’ ed unicita’.

 

ALAN J-K-68 TASSELLI (LUCA COMANDUCCI)

 

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