15-02-2004
APPUNTI (PER LA VERITA' NON NECESSARIAMENTE, TREMENDAMENTE ORIGINALI)
SULLA PORTATA STORICA DEI
DEEP PURPLE
Tra
i grandi iniziatori dell'epopea "hard-rock" a cavallo tra gli ultimi
scorci degli anni '60 ed i primissimi '70 figurano i leggendari DEEP PURPLE,
ovvero il terzo anello della indissolvibile triade ZEPPELIN/SABBATH/PURPLE.
Che
cosa mai potro' avanzare di originale, in senso critico-musicale, su di un
complesso che, in tempi di grandissimo e quanto mai unico, irripetibile
slancio creativo, vantava all'interno del suo organico musicisti tra i piu'
virtuosi che abbiano mai calcato i piu' importanti palcoscenici della Storia
del Rock. Semplicemente: (ri)lascero', meglio: lancero' alcune mie
umili impressioni su di una band la quale, sebbene oggi molto celebrata e
divinizzata, non ha quasi mai ottenuto il credito nonche' (soprattutto) il
rispetto dovuto da un ambiente giornalistico musicale generalmente tradito
(aspetto affatto raro...!!) da fastisiosi pregiudizi molto spesso ricorrenti
in dibattiti strettamente correlati al frenetico "rock-system".
Al
contrario dei Led Zeppelin, perennemente indicati come la migliore
hard-rock-band di tutti i tempi, esaltati da critici e fans per la loro
(indiscussa ed inusuale) versatilita' (a tratti francamente contro-producente,
come ebbero a dimostrarsi gli ultimi 5-6 anni di attivita'), i Deep Purple
sono sempre stati giudicati con espressioni di volgare sufficienza, snobbati,
talvolta ridicolizzati da critici ottusi ed incompetenti, critici che solevano
ridurre la straordinaria portata innovativa di una musica senza compromessi al
banale, iniquo titolo di "the loudest band in the World", sigla,
questa, che si e' spesso tramutata in forme di assurdo preconcetto verso un
gruppo di musicisti cruciali nel convulso passaggio e conseguente sviluppo di
un'era in piena, costante, esaltante, eccitante trasformazione.
Tramite
i Deep Purple la musica precedentemente "etichettata" come
"rock-blues" o "heavy-rock" avrebbe assunto proporzioni
devastanti e monumentali, tramutandosi in molte occasioni in autentici inni
alla distorsione piu' pura, dissacrazioni/rivisitazioni personalissime di
generi oramai sul viale del tramonto. Grazie ai Deep Purple nasce a tutti gli
effetti la corrente musicale conosciuta come "hard-rock". Di questa
nuova, inusitatamente feroce, infuocata tendenza i Purple costituiranno la
quintessenza, un hard senza eccessivi preamboli od arrangiamenti insulsamente
barocchi: non potremo che godere di un complesso devoto al puro
intrattenimento musicale, senza comunque (assai importante) smarrire il
concetto di genuino gusto verso una certa ricerca musicale: il compromesso non
e' mai rientrato nei personali vocabolari di musicisti audaci ed egocentrici
quali JON LORD e, in particolar modo, l'immenso RITCHIE BLACKMORE: mai prima
di quel roboante, rumorosissimo, estenuante e rovente 1970 un musicista rock
aveva osato strizzare il proprio strumento fino allo spasimo, come solo il
grande Hendrix prima di lui aveva "tentato"... Blackmore avrebbe
portato la carica "rumoristica/dissacratoria" di Hendrix agli
estremi piu' impensabili a suggello di una cacofonicita' a suo modo inedita e
stimolante: il grande chitarrista amava erigere la propria seviziata, stuprata
chitarra ad ideale, irrinunciabile complemento corporeo: dove Hendrix
"gettava" bordate di liquido seminale dalla sua Stratocaster,
Ritchie Blackmore abusava della sua "ascia" fino a richiederne (si
ha l'impressione) un annullamento sia fisico che musicale: in definitiva il
chitarrista dei Deep Purple era la perfetta sintesi di un demoniaco
serial-killer, perversamente eccitato dall'idea di poter assalire, da un
momento all'altro, la propria vittima sacrificale: i gemiti vomitati dalla sua
devota Stratocaster avevano la stessa glaciale, terrificante potenza dei
nevrotici pianti di una ragazza seviziata, stuprata, poi abbandonanta in fin
di vita: nelle esibizioni live di Blackmore non vi sono patetiche concessioni
a determinati formalismi o pretenziose, stucchevoli trovate sceniche. Gli
"effetti speciali", in un concerto dei Deep Purple, sono sempre
stati costituiti dall'eccezionale (per i tempi assolutamente devastante)
virtuosismo dei cinque componenti: IAN PAICE, uno dei piu' grandi interpreti
alla batteria di sempre, indipendentemente dal genere: serva come personale
biglietto da visita il furente, velocissimo intro di Fireball (1971):
musicista tecnicamente eccezionale ma al contempo inventivo e debordante,
"furiosamente" eclettico; JON LORD, uno dei grandi "keyboards-wizards",
di certo non inferiore all'assai piu' blasonato (ed ultra-sopravvalutato)
Keith Emerson (di cui ho gia' dibattuto in altra istanza); ROGER GLOVER era
forse lo strumentista meno considerato, se vogliamo meno ricordato, tra tutti
e cinque, comunque prettamente funzionale all'interno degli ingranaggi di un
"ego-band" quale i Deep Purple: uno stile solido e preciso, perfetto
contrappunto alle scorribande "trip-solistiche" perpetuate dal
binomio BLACKMORE-LORD; infine (di Blackmore abbiamo gia' discusso a
sufficienza, non vi pare?...) IAN GILLAN, uno dei piu' grandi vocalists che la
Storia del Rock ricordi: nel 1970 pochissimi interpreti si dimostrarono in
grado di superare in espressivita' e versatilita' le corde vocali d'acciaio di
colui che sarebbe stato scelto per il ruolo di GESU' nella celeberrima,
osannatissima opera-rock (prima versione in vinile, attorno al 1970) JESUS
CHRIST SUPERSTAR: sensuali sussurra si contrappongono a grida telluriche
dall'intensissima emissione vocale: un approccio coraggioso, virante verso un'epicita'
struggente sebbene mai eccessivamente compiaciuta o grossolana. Grazie a
questa storica versione del musical concepito da ANDREW LLOYD WEBBER, Gillan
ebbe la straordinaria opportunita' di calarsi nei panni di un ruolo ricco di
sfumature ed alterne umoralita', prodigandosi nei "tradizionali"
assai ben noti sussulti vocali, ma dimostrandosi al tempo stesso eccelso in
partiture strettamente piu' melodiche e rilassate, dando ampia dimostrazione
di rara ed invidiabile duttilita'.
Se
i Led Zeppelin erano rinomati nel ricorrere ad ammiccanti, inusitate strategie
sonore in studio di registrazione, i Purple apparivano insuperabili, talvolta
"imbarazzanti" nelle loro monumentali esecuzioni dal vivo: Ian
Gillan si e' sempre dimostrato un vocalist assai piu' solido ed affidabile
rispetto alle prestazioni vocali alterne (in alcuni casi semplicemente
disastrose) offerte dal suo collega Plant; stesso paradigma dovrei adottare
onde descrivere una certa "insufficienza" palesata da Jimmy Page:
dove quest'ultimo vince in eclettismo e maestria acustica, Blackmore stravince
(gradualmente recuperando credito nei confronti dell'odiato rivale) attraverso
debordanti, arroganti sovra-esecuzioni live di tracce quali WRING THAT NECK,
MANDRAKE ROOT, SPACE TRUCKIN' e, of course, CHILD IN TIME. Ancora: dove Page
veniva preso a modello da giovani generazioni di chitarristi hard dediti a
certo sperimentalismo e duttilita' strumentistica, Blackmore avrebbe invece
funto da irremovibile punto di riferimento per giovani chitarristi hard di
stampo "classico": Page si dimostro' geniale per quel che
concernette l'approccio verso un blues piu' moderno, spigoloso,
ultra-elettrico, severamente macchiato (specie agli esordi) da virate
psichedeliche di indubbio fascino; Blackmore si "accontentava"
semplicemente di fornire inediti, talvolta geniali, spunti neo-classici alla
propria sei-corde.
"IN
ROCK" (1970), oltre ad essere dai maggiori esperti considerato il
pinnacolo creativo e strumentistico dei Deep Purple, rappresento' anche (e
soprattutto) uno dei "tour-de-force" chitarristici piu'
entusiasmanti, vigorosi, terremotanti di
sempre.
Cio'
ancor piu' reso eloquente dal fatto che la storica MARK II non fu piu' in
grado di recuperare quelle sonorita' cosi' impregnate di magnetismo e
stravolgimenti sonori; gli strumenti strizzati con inesorabile ferocia, i
vulcanici attacchi all'unisono in SPEED KING, ovvero quando il Rock si
trasforma in una inarrestabile macchina lanciata a tutta velocita', incurante
di ogni divieto, demolendo, lungo il suo folle percorso, qualsiasi ostacolo le
si ponga davanti; tale e' l'intensita', la fragorosita' dell'impatto, i
"killer-assolo" di Blackmore, indiscusso prim'attore di uno dei piu'
audaci assalti sonori che si ricordi.
IN
ROCK e' una di quelle pietre miliari all'interno delle quali ogni traccia
parve essere concepita al fine di migliorare la precedente, lasciando
l'ascoltatore in fase di immutata estasi per tutta la durata del disco. Vi
sono sensazioni che risultano impossibili da decifrare, emozioni che a causa
della loro profondita' ed inedita astrattezza non sono riconducibili a forme
scritte e/o parlate. Almeno... e' cio' che continuo, perpetuamente, a dedurre
ogni volta che mi accingo a discutere (nel tentativo di infondere la maggiore
razionalita' possibile) di un'opera che come poche altre ha
sancito
una tappa di assoluto rilievo, contribuendo in buona parte ad un'evoluzione
musicale senza precedenti, un percorso artistico, sociale e di costume che
assai presumibilmente mai piu' si ripetera' allo stesso modo.
ALAN
J-K-68 TASSELLI
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