09-02-2003

 

 

 

 

‘ZABRISKIE POINT’

 

UN DOLCE BAGNO NELLA PSICHEDELIA E POI... APOCALISSE E FOLLIA...

 

Retrospettiva sul capolavoro "lisergico" firmato Michelangelo Antonioni

 

La prima volta che vidi Zabriskie Point ricordo promisi alla mia mente che non avrebbe

dimenticato tanto facilmente. Ero perfettamente conscio si sarebbe trattato di un espe-

rienza al di fuori di ogni schema, oltre i piu' prevedibili concetti cinematografici.

"ZABRISKIE POINT" e' opera di genio indiscusso, da parte di un Michelangelo Anto-

nioni al suo zenith di percezione creativa; le forme astratte e perfettamente, idealmente

complementari alla delirante, tagliente colonna sonora musicale, rappresentano lo specchio

delle visioni contorte ed affascinanti del grande regista ferrarese.

Con Antonioni il cinema acquista una dimensione inedita, affatto semplice da comprendere

ad una prima visione: si notera', in piu' di una circostanza, di come non esistano fondamenti

di sceneggiatura o protagonisti che rubino la scene tramite invadenti forme di narcisismo

recitativo (il vocabolo "primadonna", cosi' come fu per Kubrick, non sembra essere mai

appartenuto alle pretese artistiche di Antonioni). Uno dei grandi meriti attribuibili ad

Antonioni e' l'aver saputo coniugare il concetto astratto, simbolico e debordante della

psichedelia britannica dei tardi anni '60 ad immagini e tematiche che fossero la perfetta

rappresentazione delle proprie visioni spazianti in un ipotetico universo parallelo.

ZABRISKIE POINT e' il trionfo assoluto di questa inusuale, assolutamente magnetica

sinergia: sognante e cinico al tempo stesso, utopico ma contemporaneamente cupo e tragi-

camente futuristico, un futuro che non sembra offrire spazio ai sentimenti delle nuove

generazioni a venire. Predicatore di angoscia e senso di soffocante vuoto che ha come

massima espressione il sadismo ed egoismo tipici dell'uomo in perenne fase di auto-distru-

zione. Nichilista, dunque. Ed anarchico. Anarchico come il Mark Frechette interprete

della pellicola: un condensato di cinismo, trasgressione, non-curanza del bigottismo allora

fortemente osteggiato e "stuprato" dai giovani contestatori sessantottini. Poi l'incontro

fatale: Daria, una ragazza anche lei stanca e spossata dall'obsolenza della cosiddetta

societa' consumistisca, desiderosa di avventurarsi in nuovi territori. La assai ben nota

scena d'amore a meta' del film e' quanto di piu' "lisergico" si possa immaginare:

una Valle della Morte prodigiosamente tramutatasi in un idilliaco, iper-utopico ed

astratto Eden, dove ai corpi in stato di completa simbiosi ed estasi si sovrappongono,

quasi fossero angeli scesi dal cielo (ipotizzabile anche come Valle della Morte = Cielo/

Eden), ed avessero ubbidito solennemente ad un ordine di Dio l'onnipotente: accoppiarsi,

essere felici, complementarsi l'un con l'altro ma senza rumore o bisbiglio alcuno, nel

rispetto del massimo silenzio udibile, altre decine di immaginarie coppie: i corpi pro-

gressivamente si moltiplicano, e fanno

l'amore indisturbati, incuranti di cosa vi sia sopra o sotto di loro: il ritratto che si

ha di questo imperdibile momento cinematografico e' sontuosamente sottolineato dalla

calda, garbata, insinuante, memorabile chitarra di Jerry Garcia (leader carismatico

e compositore dei Grateful Dead, altro monumento della psichedelia anni '60): poche,

pochissime sono le circostante nelle quali musica ed immagini hanno trovato collocazione

e condizione spazio-temporale piu' indicati, in breve: uno degli highlights visivo-cinema-

tografici del XX° Secolo.

In netta contrapposizione con la suddetta scena, e' l'apocalisse che si scatenera' nella

convulsa, concitatissima parte finale della pellicola: secondo la personalissima visione

del mondo di Antonioni, l'uomo e' destinato a scomparire e a lasciare piu' nessuna traccia

di se'; niente piu' amore, niente piu' idillio, niente piu' Eden, tanto sognato ma solamente

sfiorato per pochi, apparentemente eterni, secondi di illusione alimentati, "fermentati"

da sogni ora bruscamente, selvaggiamente troncati dallo spietato egoismo di un uomo sem-

pre piu' avido e tronfio di se stesso, incapace di riconoscere i limiti di un'esistenza nichi-

lista e per cio' inquinante l'ecosistema umano-ambientale all'interno del quale vive. E "fo-

tografia" migliore non poteva che

tradursi in una terrificante, assordante, lunga esplosione, esplosione ai danni di quel benessere

che l'uomo stesso ha creato ed imposto su madre natura: sinonimo di suprema arroganza

e generale incivilta', un excursus sulle reali, accertate "non-qualita'" da parte di una moltitudine

di individui resi schiavi dal Dio Denaro. Le urla belluine, al limite della cacofonia, da parte

di un ultra-isterico Roger Waters, il quale si ha l'impressione stia a sua volta esplodendo insieme alle sfarzose ville sulla roccia, nella scena finale di Zabriskie, contrappuntano con maniacale perfezione questo stato di infinita debolezza e resa incondizionata da parte dell'essere umano, senza che egli abbia la benche' minima possibilita' di reazione emotiva; anzi, miseramente, patetica-

mente destinato ad osservare la propria indiscussa megalomania sbriciolarsi inesorabilmente,

implacabilmente, mentre noi tutti veniamo travolti, corrosi e polverizzati da un diluvio universale

fatto di morte e distruzione. Cosi' come, parallelamente, viene distrutto l'idillio lisergico-

amoroso di Daria e Mark, quest'ultimo vittima della sua stessa, sconsideratamente folle anarchia:

verra' ucciso dallo stesso potere al quale si era ribellato, ponendo fine ad un gesto da eterno

immaturo nel quale in non pochi, all'epoca, avrebbero riconosciuto come "dannatamente spregiu-

dicato ma terribilmente giusto...anzi, giustissimo!!...".

La polizia, cioe' il potere, si riappropria di quella autoritarieta' ed ordine che erano state,

sebbene solo per qualche attimo, messe in grave discussione dal libero pensiero di un anarchico

non-contestatore, individuo al di fuori di ogni immaginabile schema. Oltraggiosamente incapa-

ce di inserirsi appieno nei meandri di una societa' colma di insulsaggini ed inutili propagande pubblicitarie, inneggianti al piu' bieco dei principi consumistici.

Mark verra' barbaramente ucciso, senza che abbia avuto la possibilita' di dichiarare

la propria colpevolezza: ucciso da una realta' che non sa aspettare e che intende correre

troppo in fretta, e che, di conseguenza, UCCIDE, con eccessiva, ingiustificabita fretta.

Le lacrime di Daria completeranno il processo di annientamento dell'utopia, culminante con l'apocalisse finale, in un susseguirsi di ville (sinonimo di benessere) fatte saltare in aria

da chissa' quale volonta' superiore.

Un finale cupo e spettrale: Antonioni lancia gli strali contro

l'uomo e la sua innata presunzione, senza permettergli sguardi verso un futuro che poco prima

si era auspicato migliore. Lo spietato, ultra-drammatico cinismo del grande cineasta trova in

questo personale spaccato da "fine-del-mondo" il suo massimo compimento; un pensiero ed

un modo di intendere l'esistenza tanto destabilizzante ed agghiacciante quanto le corde

vocali di Waters scartavetrate, corrose dalle sue urla "primal-scream". D'altronde l'impatto

nei film di Antonioni ha sempre costituito l'epicentro delle sue produzioni nonche' un tangibile

marchio della sua filosofia esistenziale: rimanere indifferenti alle magmatiche ed al contempo ellittiche allusioni visivo-lisergiche all'interno di Zabriskie Point sarebbe come ammettere di non

possedere dentro di noi una materia grigia pensante od un cuore che sia in grado poter esprimere i nostri sentimenti, nel bene e nel male.

I films di Antonioni non vanno visti o non visti: debbono essere capiti o non capiti, non

sussistono (e non possono sussistere) le mezze misure in questo contesto, altrimenti le sue opere perderebbero il significato e valore originali; un pubblico distratto e non troppo incline a sviluppare un pensiero autonomo si dovra' astenere dal guardare (e, successivamente, si spera,

interpretare) le obliquita' di una personalita' complessa e contorta, difficile da assi-

milare tutto d'un fiato.

Il sottoscritto, fortunatamente, e' sempre stato un "divulgatore dell'autonomia di pensiero"

(tanto da autodefinirsi in piu' di una circostanza "un maniaco della personalizzazione"...eh!...)

Ed e' per questo che mi sono appena accollato la responsabilita' di recensire l'opera di un

regista assolutamente geniale ed innovativo quale e' stato (e per sempre sara') Michelangelo Antonioni.

Spero di non dovermene pentire....in futuro.... (apocalittico o meno....)

 

ALAN J-K-68 TASSELLI

 

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