08-11-2002

 

 

QUEEN, COS'ALTRO AGGIUNGERE?...

 

Impressioni sul sottile filo del reiterato

 

 

Non e' affatto semplice in un 2002 aggiungere

qualcosa di nuovo o di originale alla saga di

uno dei gruppi piu' celebrati, amati/odiati/vi-

tuperati/osannati della Storia della musica

popolare del XX° SECOLO.

Non e' semplice in considerazione del fatto che,

dalla morte di Freddie Mercury avvenuta

Domenica 24 Novembre 1991, le celebrazioni e

contro-celebrazioni si sono succedute incessan-

temente e, permettetemi di dire, in alcuni

circostanze, alquanto infaustamente.

Questa campagna di "sodomizzazione-psicolo-

gica" pro-Queen (ed in particolare pro-Mercury) e'

quanto di piu' spropositato e stomachevole possa

manifestarsi nel sin troppo eterogeneo pianeta del

divismo ad libitum, dove la morte si sovrappone

all'esistenza terrena, consegnando agli angeli cu-

stodi l'anima di un folle spericolato dedito alla

lussuria piu' sfrenata, vittima di sfuriate egocen-

triche da autentico pagliaccio, instancabile

metronomo della propria assoluta, destabilizzante

vanita', schiavo di un narcisismo francamente a tratti

sconcertante.

Ed un pagliaccio (qui inteso nell'accezione

"positiva" del termine) Freddie Mercury lo e' stato

per davvero: inarrivabile show-man, insuperato vocalist

dal timbro limpidissimamente cristallino, una vocalita'

inconfondibile ed ammaliante, catturante, personaggio

e uomo dotato di carisma innato e di acutissima, appa-

rentemente infinita sensibilita' artistica, sensibilita'

cosi' smaccatamente, inauditamente evidente all'interno

delle sue melodie, da quelle piu' conosciute e cantate

a squarciagola da milioni di ammiratori, ad altre

"sepolte" dalla polvere, e poste, immeritatamente e troppo

frettolosamente, nel dimenticatoio.

Un (odioso, fastidiosamente "deviante") cliche'

vorrebbe i QUEEN come uno dei gruppi piu' rappresentativi e

significativi degli anni '80, traendo implacabilmente

in inganno l'ascoltatore e fan di turno. Io, invece,

tanto per erigermi a bastian contrario (con

inqualificabile sincerita', comunque, su questo non

transigo, affatto!...), ho sempre vivacemente sostenuto,

contro il parere di molti, che Mercury e Compagni abbiano

espresso le migliori e piu' convincenti pagine della

loro immensa carriera durante il decennio precedente,

in particolar modo a cavallo tra il 1973,

anno del loro esordio discografico, ed il 1976, con

l'avvenuta pubblicazione di un "must-have" queeniano,

A DAY AT THE RACES (l'ideale successore del capolarovo

A NIGHT AT THE OPERA)

Nel corso di questi tre anni, i Queen hanno potuto

constatare, forse piu' di ogni altro complesso

dell'epoca, quanto fosse impossibile (in alcuni casi

improbabile) imporre la propria personalita' ed arte

senza scendere ad eccessivi compromessi; Mercury, May,

Deacon e Taylor si resero subito conto di aver intra-

preso la strada piu' difficile ed irta di traversie e

controversie. In special modo, nel lasso di tempo inter-

corrente tra il 1971 ed il 1973, periodo che si sarebbe

rivelato cruciale ai fini della loro implacabile scalata

verso la notorieta', i QUEEN avrebbero provato sulla loro

pelle tutti i pro ed i contro di uno spietato, insolente e

talvolta incompetente mercato musicale, vivendo costante-

mente sulla solidissima, assoluta convinzione che un giorno

non troppo lontano essi ce l'avrebbero fatta.

Il sottoscritto non e' certamente uno dei maggiori e

piu' accaniti fans del famoso combo londinese, ma non

sara' mai nemmeno uno dei suoi piu' acidi e sadici

detrattori.

Da sempre anch'io attento alle evoluzioni di un

musicista con occhio maniacalmente clinico riversato

sulla "misurazione" della sensibilita' melodico-quali-

tativa di costui, non posso fare altro che rifiutarmi

dinanzi a quelle tronfie e afone grida inneggianti al-

la figura di macho "high-clone" sfoggiato da un superbo

ed altezzoso Mercury intorno alla meta' degli anni '80.

Decisamente piu' sensuale e provocatorio quando indossava,

circa 10 anni prima, sgargianti completini di raso o abiti

dalle clamorose scollature, ambigue e conturbanti, disegnati

dalla stilista di fiducia di Freddie Mercury, la leggenda-

ria e mai dimenticata Zhandra Rhodes (celebre a tal propo-

sito si rivelera' il celeberrimo "corpo alato", contraddi-

stinto da un netto bianco "angelico"). Fu precisamente in

quel contesto che Mercury raggiunse il picco di

provocazione scenico-visiva, lievitando il proprio

smisuratissimo, debordante (ed a volte francamente

irritante) ego, l'ideale complemento ad una personalita'

follemente bizzarra e macchiata sovente da dosi di estrema

eccentricita'. Nelle tracce dei QUEEN risalenti al primo

periodo, KEEP YOURSELF ALIVE occupa una posizione di rilie-

vo: esso fu il primissimo 45 giri ad essere pubblicato,

ma non ottenne il successo sperato, anzi, si tratto'

di un fiasco completo. Il brano, composto da Brian May,

si avvaleva dell'interpretazione di un gia' determinato

e minaccioso Mercury: sullo spettatore viene gettato

un imponente, ficcante riff, da considerare tra i mi-

gliori in assoluto di May, mentre Mercury, grazie ad

un canto arrogante e senza facili compromessi,

stronca le velleita' di qualsiasi buonista incapace di com-

prendere (ahilui...) il significato del termine "tra-

sgredire". La sensibilita' vocale di Mercury, al con-

trario, domina in DOING ALRIGHT, autentica perla del

primo LP: la voce dapprima appare tenue, soave,

sospesa sulle ali di un cielo dorato, mentre in seguito

l'umore cambia fino ad assumere i connotati di una

"ballad" elettrica di chiara derivazione "ledzeppeli-

niana", derivazione resa evidente dal violento stacco

chitarristico di Brian May, che non puo' non

rievocare (e pesantemente)

la struttura di un gioiello quale WHAT IS AND WHAT

SHOULD NEVER BE, composizione che si dimostrava

un perfetto, ideale connubio tra dolcezza

semi-sussurrata e veemenza vocale esternata con mas-

sicce, "disturbanti" scariche di nevrosi. DOING

ALRIGHT risaliva al periodo-SMILE, formazione nella

quale militava TIM STAFFELL, ovvero l'uomo che avreb-

be presentato a Brian May e Roger Taylor un ancora

sconosciutissimo (ma gia' alquanto superbo ed egoma-

niaco) Freddie Bulsara, qualche tempo dopo ribattezza-

tosi, come tutti sanno, Freddie Mercury.

Il primo LP scivola tra fascinose, zuccherose

ballate, dalla svenevole bellezza (THE NIGHT COMES

DOWN) a ruvide composizioni hard-rockeggianti quali

SON AND DAUGHTER, fin troppo riecheggiante i fasti dei

migliori LED ZEPPELIN (e comunque si tratta di un brano

energico e di ottima fattura, nel quale figura un May dal

sound sporco ed insinuante, particolarmente "cattivo"),

passando per certe reminiscenze di rock progressivo dai

toni evocativi e sospese su magnetici, ammiccanti intrec-

ci vocali tutti imperniati su di un conturbante falsetto.

Infine LIAR, primo roboante "mattone" mercuriano: una

composizione piuttosto complessa,  divisa in differenti

sezioni, autentico "tour-de-force" sostenuto dal gruppo

inglese. Introdotto dalla

selvaggia chitarra di Brian May (in questo frangente

a mio avviso rievocante asperita' chitarristiche piu'

vicine a Ritchie Blackmore dei DEEP PURPLE che a Jimmy

Page), si ha l'impressione si apra un varco, nel quale si

staglia, brevemente, un dolce accenno di organo;

e' a questo punto che entra in scena il sensuale

vocalismo di Mercury, il quale esplode nel ritornello

urlato a voce piena insieme a tutti gli altri membri dei Queen.

LIAR possiede una cadenza struggente, sottolineata da

marcati accenti drammatici, sebbene, a mio parere,

(in)-volontariamente "rovinato" da troppi cambi di tempo, qua-

si fosse, questa scellerata frenesia, un atto di suprema

arroganza, una dimostrazione di (forzato) eclettismo, alla

fine solo deleterio e nocivo, per quel che concerne lo sta-

tus qualitativo di questa prima opera by Queen.

Ora mi "catapultero'" piu' che volentieri ed eccitato

nel 1974, anno che vide la pubblicazione del secondo

LP, semplicemente intitolato QUEEN II.

L'album si apre solennemente con PROCESSION, seguita

immediatamente da FATHER AND SON, a mio parere il

primo piccolo capolavoro firmato Brian May: entrambe

le tracce sono state programmate al fine di una

reciproca compensazione: dove PROCESSION rappresenta

idealmente l'inconfondibile trademark della chitarra

di May, FATHER AND SON eccelle per lucidita' ed alta

originalita' compositiva, fornendo quel tipico tocco

di epicita' cosi' cara ai Queen nella prima fase del-

la loro carriera. Il brano in questione e' a dir poco

trascinante, e vi si nota un certo taglio "cinemato-

grafico", sorta di confronto tra padre e figlio,

ma rivisitato in chiave fantastica, "pesantemente"

"addobbato" di pomposa musicalita', pomposita' comun-

que mai sopra le righe, in questo frangente contenu-

tissima e priva di inutili, pretenziosi tecnicismi

d'accatto. FATHER TO SON col passare del tempo acqui-

stera' sempre piu' valore per quel che concerne il

il concetto di innovazione musicale, assurgendo a

sorta di "sotto-genere" che verra' dilatato e ripreso

da altri complessi nel corso degli anni successivi

(ad esempio KANSAS e STIX, tanto per tracciare una

piccola analisi su questo originale, fascinoso "movimento").

Per tutto il 1974 (e per molte altre esibizioni

dal vivo della band inglese), l'inossidabile binomio

PROCESSION/FATHER TO SON costituira' l'apertura

concertistica-tipo, portando lo stato umorale dello

spettatore verso sintomi di eccitazione pura, un

intro di indiscutibile portata scenica e caparbia-

mente suggestivo.

May furoreggia ancora con WHITE QUEEN (AS IT BEGAN)

e ONE DAY SOME DAY, che riportano alla superficie

una sensibilita' artistico-melodica non tanto in-

feriore a quella del suo celebre contraltare.

QUEEN II e' eloquentemente, nettamente diviso in

due antitetiche parti: il WHITE SIDE (lato A)

sarebbe divenuto il pretesto per lo showcase

chitarristico e compositivo di May, mentre il

BLACK SIDE avrebbe evidenziato le linee "oscure"

e tenebrose della personalita' di Mercury.

Francamente il sottoscritto opta per il LATO BIAN-

CO, grazie al talento di May, di gran lungo piu'

equilibrato e contenuto di quello evidenziato da

Mercury, mostrando a piu' riprese una sintassi

esecutiva e creativa ben piu' convincente ed ela-

stica. Mercury infatti in questo frangente s'im-

pone come performer aggressivo oltre il limite,

autore di brani fastidiosamente inclini ad una

sin troppo evidente e compiaciuta pomposita',

sfiorando in alcuni punti del disco livelli di

grossolanita' semi-parodistica assai ardua da

digerire ad un primo ascolto: e' come

se si trattasse di "letteratura musicale tendente

al trash" piu' spudorato, senza una possibilita'

di calcare una percorso interiore situato ideal-

mente a meta', elevando invece all'ennesima

potenza il proprio ego, tronfio e travolgente,

disgustosamente estremizzante verso temi epici

e rimandanti il medioevo fiabesco ed oscuro.

OGRE BATTLE, FAIRY FELLER'S THE MASTER STROKE

e THE MARCH OF THE BLACK QUEEN si rivelano

essere egregi spaccati della complessita' men-

tale e tragicamente perversa di un sempre

assetato Mercury, puntellata da tracce di

inevitabile, drammatica oscurita', riflessa

nei testi prettamente enigmatici e fantastici

del Nostro.

Passano alcuni mesi, Brian May durante un

concerto negli Stati Uniti (di cruciale impor-

tanza per le sorti divistiche del gruppo, avendo,

le "quattro Regine", puntato moltissimo sulla prima

tournee' oltre-oceano) collassa sul palco: gli

viene diagnosticata una epatite virale, causata

da un ago sporco di siringa utilizzato onde som-

ministrare un vaccino allo sfortunato chitarrista

qualche settimana prima.

Sara' costretto a rimanere bloccato (fisicamente,

ma non...mentalmente) per diversi mesi, costringen-

do in tal modo ai rimanenti compagni l'annullamento

del tour, gettando nello sconforto tutto l'entourage

che si era portato al seguito della grande band.

Saggiamente gli altri tre membri del complesso decidono

di concedere anima e spirito al lavoro in studio

di registrazione, scelta di indiscutibile intelli-

genza ed accortezza, in maggior considerazione del

fatto che, per un principio di unita' intrinseco

nei Queen, Mercury e Compagni si erano rifiutati

categoricamente di rimpiazzare il convalescente

May. Altri complessi, rosi dalla smania di potersi

affermare nel minor tempo possibile, avrebbero

spietatamente "estromesso" l'appestato di turno,

atto che, ammirevolmente, non e' stato compiuto

dalla band capitanata da Freddie Mercury.

E cosi', lontani, almeno per il momento, dall'as-

sillo psico-fisico delle esibizioni dal vivo,

i Nostri si concentrano mirabilmente nel produrre

il loro terzo "effort", che vedra' la luce l'8

Novembre 1974: SHEER HEART ATTACK.

Per l'occasione, un mai rinunciatorio ed orgoglioso

Brian May, fornira' un apporto

fondamentale all'interno dell'economia musicale

del gruppo, firmando gemme hard quali NOW I'M

HERE (composta e svilupatta durante il periodo

di lunga convalescenza in ospedale) e la celebre

BRIGHTON ROCK, che, dopo PROCESSION, diverra'

ultra-legittimamemente uno dei "favourites" in

assoluto dell'eclettico chitarrista inglese:

da convenzionale traccia dal sapore epico e

trascinante, BRIGHTON ROCK assumera' la forma

di interminabile gamma di suoni e colori parto-

riti dalla RED SPECIAL di May (coniata anche

con il suggestivo termine di "chitarra-caminetto"):

e' il trionfo esecutivo di una funambolica,

versatilissima sei corde, stile, questo, reso

ancora piu' enfatico e travolgente dall'ampio

uso di eco di cui May era un assoluto feticista.

Un esemplare incrocio tra asprezza, taglienti note

e momenti di altissimo lirismo. BRIGHTON ROCK

rimarra', per sempre, un punto fermo dei con-

certi dei Queen, nonche' supremo highlight

per May, che a breve avrebbe portato a pieno

compimento la famosa tecnica della "chitarra-

stratificata" (in inglese "layered-guitars").

SHEER HEART ATTACK mostra un decisivo passo

in avanti per quel che concerne la generale

sonorita' e livello compositivo raggiunto

dal leggendario complesso. La leadership si di-

vide anche in questo episodio equamente tra Mercury

e May: il primo, affinando il proprio oltrag-

gioso stile di espressivo drammaturgo, talvol-

ta decadente e struggente: ne e' prova

un piccolo e nascosto capolavoro mercuriano

quale IN THE LAP OF GODS, suddivisa in

due contrastanti parti: la prima, solenne

ed evocativa, ricca di cambi d'atmosfera,

una composizione sulla quale cadere a braccia

spiegate, innamorandosene all'istante, tanta

e' la dolcezza esecutiva di Mercury, perfetta-

mente a suo agio nel ruolo di amante perduto

e lasciato, ora nella mani degli Dei, Dei che

saranno i giudici del suo contorto destino, un

destino di peccatore oltranzista e pronto a cedere nel

pianto in qualsiasi momento. La seconda parte (IN

THE LAPS OF GODS..."revisited"),

al contrario, rappresenta idealmente la

chiusura dell'album (nonche' perfetta "set-clo-

ser" dei concerti risalenti al periodo delle prime

tournee' statunitensi), un "epic anthem" di

rara suggestione, che avrebbe chiarifica-

toriamente anticipato quella tipica, spesso

criticata e vituperata tendenza da "inno

concertistico di massa" (vedi WE ARE

THE CHAMPIONS e relativi "parenti"...).

Impossibile, of course, dimenticarsi di

KILLER QUEEN, ad opera di un gia' gigioneg-

giante e raffinatissimo Freddie Mercury,

piccolo capolavoro che rasenta la quintes-

senzialita' perfezionistica dei Queen

versione-Seventies: un geniale, inusuale

connubio tra melodia da "cabaret" e quel

pizzico di durezza e lieve asprezza

sinonimi indiscussi di certi glam-rockers

furoreggianti, a cavallo della meta' di

un decennio tutto da riscoprire.

La si potrebbe definire uno dei piu'

riusciti esempi di "kitsch-melody",

tanta e' la sfrontatezza e sottile provo-

cazione da parte di un ambiguo Mercury.

Non mancano le succose, talvolta ostenta-

tamente mielose ballate (mai stucchevoli

ad ogni modo, quella stucchevolezza in

cui cadranno i Queen con le loro succes-

sive iper-prodotte opere, in special modo

durante gli infausti anni '80): DEAR

FRIENDS e LILY OF THE VALLEY, composizioni

atte a confermare una volta di piu'

l'estrema sensibilita' creativa dei Nostri.

Una citazione a parte merita STONE COLD

CRAZY, in assoluto tra le gemme preferite

dei Queen; si tratta di un piccolo gioiello

nascosto dal tempo e dalla scarsa memoria

di molti ascoltatori di musica pop: trattasi

di un acuminato, tagliente, nevrotico "proto-

speed-metal", che i METALLICA coverizzeranno

con immenso successo (e con la vincita di

un prestigioso GRAMMY AWARD) nei tardi anni '80.

Next-to-come BOHEMIAN RHAPSODY ed il relativo

album, l'osannatissimo, iper-divinizzato

A NIGHT AT THE OPERA, capolavoro assoluto

dei Queen e di Mercury in particolare.

Tale prodotto s'insinuera' tra le produzioni

piu' costose ed elaborate della storia del

Rock, una stratosferica raccolta di canzoni

maniacalmente rivisitate e studiate al

minimo dettaglio, riecheggianti vivacemente

il senso di ingombrante perfezionismo di

cui SGT. PEPPER dei Beatles si fece indiscus-

so portavoce. E non a caso, con grande corret-

tezza, A NIGHT AT THE OPERA verra' definitiva-

mente "etichettato" come il vero, legittimo

SGT. PEPPER degli anni '70.

Il resto della saga-Queen penso voi la conosciate,

anche fin troppo.... e non sara' mio compito

reiterare ossessivamente ed implacabilmente

che cosa questi quattro audaci musicisti hanno

significato nel corso della loro ventennale carriera.

Andate rigorosamente a ritroso, dimenticatevi gli

insulsi "eighties" ed affogate il vostro dolore,

il vostro pianto e la vostra sensibilissima anima

nei solchi di inarrivabile bellezza presente nelle

prime quattro opere prodotte da Freddie Mercury,

Brian May, John Deacon, Roger Taylor.

Ritengo non abbia alcunche' da aggiungere.

Il resto... spetta a voi!!...

 

BYE

 

....un uomo momentaneamente sospeso tra

le braccia degli Dei....

 

ALAN "J-K-68" TASSELLI

 

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