23-09-2002
Il Grande Laboratorio per menti
anarco-prog-schizophreniche
Brevi accenni sulla Grande Scuola di Canterbury
E' il 1970 ed il rock si permette di essere anche anti-commerciale, proponendosi
audacemente come miscela musicale "no-limit", all'interno della quale
opereranno
musicisti di estrazione prevalentemente jazz ma dalla concezione (ed ambizioni)
artistiche assai spregiudicate ed incuranti dei rigidi standards dell'epoca.
Tutto ha inizio intorno ai primi anni '60: uno stuolo di innovativi musicisti si
ritrovano regolarmente in clubs e pubs della loro citta', CANTERBURY, onde
formare
i primi complessi che, tempo qualche anno di febbrile, incessante attivita',
diverranno
noti come gli illustri esponenti del "CANTERBURY SOUND", La Scuola di
Canterbury. A
farne parte sono eccentrici quanto inusuali personaggi: KEVIN AYERS, ROBERT
WYATT,
ELTON DEAN, MIKE RATLEDGE, che nel 1968 costituiranno il primo embrione del
progetto-
SOFT MACHINE. A loro, precedentemente, si era unito uno stravagante, enigmatico
personaggio di nome DAVID AELLEN, il futuro fondatore di uno dei complessi
piu' "improbabili" (qui "improbabile" ha un'accezione del
tutto positiva) e "strambi" che la
Storia del Rock ricordi, i GONG: si trattava di un combo dominato dalla
personalita' folle e
stralunatissima del loro leader, fedelmente coadiuvato, compensato dalla
chitarra
"space-rock" estremamente inventiva (ricca di colori ed eccentriche
sfumature) di
STEVE HILLAGE; essi composero e portarono alla luce la trilogia piu' erratica,
cerebrale e
forse anti-istituzionale di sempre, solchi di alchimie inascoltabili, per mezzo
delle quali
venivano "vomitati" sull'esterefatto ascoltatore di turno (magari solo
di passaggio)
autentici sketches semi-demenziali sui quali si stagliavano, facendo da contrap-
punto, brevi frasi melodiche decostrutturate, apparentemente "figlie"
di un
processo illogico dominato da menti alquanto "deviate", "malate
di psichedelia"
ed agghiacciante, debordante ed incontrollabile cerebralita'. Musica dai
caratteri spesso
volutamente incomprensibili, TOTALMENTE anti-commerciale e destinata ad un
pubblico
di severa elite intellettualoide-schizo-anarchica. D'altronde nessuno avrebbe
dubitato allora della latente, ingombrante anarchia di un personaggio assoluto
come DAVID AELLEN, perfino rifiutato in madrepatria a causa dei suoi gesti
di destabilizzante pazzia (e rifugiatosi in Francia, che divenne presto la sua
"seconda casa"), uniti ad un carisma del tutto anti-dogmatico
che certo il Sistema britannico allora poco gradiva (e poco era disposto a
comprendere). Una musica-NON-musica, in definitiva, l'acme anarco-sovversivo-
intellettuale, inconfutabile comune denominatore della scuola "canterburiana",
sconosciuto ai piu' ingenui esseri umani dotati di vacillante ambizione, e
quindi assai
poco propensi (per non dire nulla) ad imbattersi in sentieri musicali dalla
feroce
indole "decompositiva", sentieri egregiamente battuti da quel mostro
di originalita' e
cerebralita' che risponde al nome di DAVID AELLEN (il quale, proprio in Francia,
diede vita
ai GONG insieme a STEVE HILLAGE).
I SOFT MACHINE incidono il loro primo LP nel 1968, intitolato semplicemente
VOLUME ONE. Subito vengono tracciate le coordinate musicali imposte prevalen-
temente da AYERS, WYATT e RATLEDGE, i principali compositori: una eccitante,
del tutto "anti-pop-rockistica" commistione di melodie e
"contro-melodie" (talvolta
autentici rigurgiti e allucinate trovate, incastrate alla perfezione lungo i
solchi del
disco), per mezzo delle quali l'estrazione JAZZ dei musicisti e'
"palpabile" ma
mai fastidiosamente pomposa o particolarmente auto-indulgente; occorre valutare
attentamente l'anno di pubblicazione di questa prima opera canterburiana: era
il 1968, un anno di febbrili contestazioni, un periodo convulso e denso di
pathos
emotivo, drammatico nel suo evolversi e capace di calamitare attorno a se
l'attenzione di un mondo sconvolto, "struprato" dalle migliaia di
vittime lasciate
dalla guerra del Vietnam. In un simile contesto appare del tutto anarchica,
quanto follemente anacronistica la scelta di esibire un simile articolato (e per
nulla POP o ROCK) ensemble di allucinata ma contagiosa anarchia; in breve,
VOLUME ONE dei SOFT MACHINE rappresenta un'inedita, riuscita antitesi
alla drammatica, mal accettata realta' in cui i giovani di allora erano
costretti
ad imbattersi. E il concetto di "felice anarchia" da me sovraesposto
non potrebbe
risultare piu' adatto, in quanto progenitrice e comune denominatore di una
scuola,
e di un'armonia concepita attraverso un lungo, intenso (e spesso travagliato)
labora-
torio di idee, idee che subivano un piu' o meno costante flusso creativo da
parte
di geniali musicisti impavidi e solitari, del tutto disinteressati verso il
principio
di successo e relativa vendita di dischi cosi' canonico e sfruttato all'interno
dell'e-
stablishment rockistico.
Wyatt e compagni non registravano dischi per intascare soldi, casomai
producevano
con l'intento di sperimentare pedissequamente, non importa se cio' avrebbe
potuto
comportare alla loro musica l'etichetta di "incomprensibile
anacronismo". Il progetto
SOFT MACHINE era l'equivalente di un immenso porto dove un artista succedeva
all'altro, senza soluzione di continuita'; l'unico, attestabile comune
denominatore,
ovvero un collante che facesse da traid-d'-union fra i singoli musicanti, era il
principio di folle genialita' anarchica-intellettuale che verra' (in alcuni
casi) disordina-
tamente sperperata lungo il corso dei loro numerosi album.
SOFT MACHINE - THIRD, edito nel 1970, viene considerato unanimemente
il vertice assoluto della "macchina soffice", con un Wyatt
assolutamente debordante
in MOON IN JUNE, un superbo tocco di melodia stralunata e dall'indole satirica,
sulla quale svetta la dimessa, sottile ma al contempo rauca e colma di serio
dramma-
ticismo affascinante vocalita' di questo grande alchimista del XX SECOLO.
Ratledge compensa l'ego psichedelico e sferzante di Wyatt con una mistura di
jazz-
fusion dai tratti fortemente ipnotici (facendo uso di tastiere reiteranti
all'infinito
sequenze musicali, alcune delle quali ottenute tramite "tape-loop-effects"),
confe-
rendo squarci di grande cerebralita' alle quali si sovrappone/contrappone Hopper
con la sua "FACELIFT", composizione farraginosa, ricca di cambi di
direzione e
numerosi, dissimilari segmenti tecnico-armonici. Dato non da sottovalutare e'
anche la capacita' (nonche' l'intelligenza) dei tre musicisti nel non voler
eccedere
in auto-indulgenza (come purtroppo accadra' alla larga parte del movimento
progres-
sive intorno alla meta' degli anni '70), trappola fin troppo comune quando si
ci si avventa nel concepimento di un progetto minato da troppa ambizione e reso
cieco da una ricerca confusa e spesso pateticamente, inutilmente fine a se
stessa.
Quell'eccesso di ricerca e (ancor piu' grave) di auto-indulgenza che in seguito
avreb-
bero impietosamente decretato la morte di tutto l'establishment rockistico.
(vedere PUNK E DINTORNI...).
ALAN "J-K-68" TASSELLI
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