04-09-2002
GRAND
FUNK RAILROAD
In
principio, vi furono due correnti a scindere in due antitetiche frangie il
neonato filone hard rock: la prima, formatasi nel 1968, era rappresentata dai
Led Zeppelin, mentre la seconda dai GRAND FUNK RAILROAD, grosso modo sempre
intorno ai tardi anni '60.
Le proposte musicali dei due complessi erano assai difformi ed in contrasto,
eccetto che per il fattore dell'altissimo, spropositato per i tempi, volume
degli amplificatori: se il gruppo guidato da Jimmy Page e Robert Plant era
artefice di un modernissimo, eccitante rock-blues, obliquo quanto articolato da
un punto di vista strettamente tecnico-compositivo, i Grand Funk di Mark Farner,
Don Brewer e Mel Schacher regalavano ai propri ammiratori un "heavy
blues" assai monotono e ruvido, con una naturale tendenza (soprattutto da
parte del chitarrista Farner) a lunghi, estenuanti assoli dalla indiscutibile
matrice blues, vertiginosamente accelerati e (solo apparentemente) privi di
qualsiasi fronzolo virtuosistico.
L'antitesi a cui mi riferivo soprastantemente ha come epicentro lo stile
adottato dalle due bands: la prima, follemente attirata da tutti i trucchi e
bizzarrie che lo studio di registrazione era in grado di offrire a quel tempo,
ostentatori quanto mai delle loro arroganti pretese virtuosistiche, autentici
"manipolatori", STREGONI-padroni di una formula musicale che non aveva
precedenti (basti ricordare, a tal proposito, la parte centrale insolitamente
psichedelica che complementa alla perfezione la spigolosita' e la freneticita'
di un brano come WHOLE LOTTA LOVE); i secondi, al contrario,
"portavoce" della nuova corrente "hard" americana,
decisamente meno maniacale (da un punto di vista sperimentale) rispetto ai loro
"cugini" britannici: in definitiva la musica dei Grand Funk verteva
principalmente sulla compattezza sonora del trio FARNER (chitarra e voce
solista), BREWER (batteria) e SCHACHER (basso elettrico) e non aveva la stessa
predisposizione alla liberta' creativa dei Led Zeppelin, il cui concetto di arte
non avrebbe mai previsto il ripetersi di una loro precedente, sconvolgente
innovazione stilistica. Quanto le bizzarre direzione artistiche erano il fiore
all'occhiello (ed autentica ossessione) di Page e soci, tanto era la semplicita'
e l'ingenuita' nelle grezze proposte musicali da parte del gruppo diretto da
Mark Farner.
I Led Zeppelin, gia' a partire dal 1968, furono i primi a "rivisitare"
completamente (ed anarchicamente) il concetto di "rock-blues" allora
vigente: innovatori quanto esibizionisti e arroganti musicisti, gli Zeppelin
portarono a compimento, nel giro di quei convulsi, caoticissimi mesi, la formula
DEFINITIVA di quel nuovo "verbo-rock" che avrebbe portato il titolo di
"ROCK DURO". L'intuizione piu' debordante fu quella di alzare
vertiginosamente i volumi (fino al limite consentito... o forse... anche oltre
....!) pur mantenendo chiara la derivazione musicale dei quattro musicisti, tra
i quali emergeva come compositore e "sperimentatore feticista da
studio" Jimmy Page, un virtuosissimo della sei corde che fino a poco tempo
prima aveva svolto (con immenso successo) il ruolo di "session-man" in
lungo e in largo per tutta la Gran Bretagna, al servizio di molti nomi illustri
della scena britannica.
Nel 1968 fu lui a prelevare i morenti Yardbirds onde trasformali, previa
l'avvenuto ingresso di Robert Plant come cantante, John Paul Jones in qualita'
di bassista/organista e John "Bonzo" Bonham (batteria e percussioni)
in New Yardbirds; successivamente (e definitivamente), Page ribattezzo' i New
Yardbirds in LED ZEPPELIN (su suggerimento di Keith Moon degli Who).
"A new star was born" - una nuova stella era nata.
Meno
dotati da un punto di vista tecnico, I Grand Funk Railroad si distinsero
immediatamente, oltre che per il folle volume dei loro concerti, per la
"cieca" aggressivita' e ruvidezza sonora con le quali si proponevano
al pubblico; tutti e tre i musicisti implicati nel "progetto-Grand-Funk"
erano in grado di prodursi in interminabili sessions, dilatando le proprie
composizioni da studio in lunghi "orgasmi strumentali", spesso
confinanti con la piu' prossima cacofonia, come dimostravano i loro primissimi
concerti (si disse che tra gli spettatori di allora vi fu qualcuno visto uscire
con le orecche sanguinanti....).
Dove i Led Zeppelin primeggiavano superbamente in eccentrici quanto magnetici
preziosismi strumentali, i Grand Funk Railroad avrebbero puntato su un sound
piu' diretto, viscerale, sorretto da riff tellurici e devastanti, senza badare
troppo all'eleganza di ogni performance.
Cio' che contava era scaricare una rabbia che fosse capace di condensarsi nei
mega-watt prodotti dalla loro chitarra urlata e strillante, spigolosa e sporca,
supportata da una batteria in perenne "stato bellico", quanto era
l'acida cattiveria violentatrice di Brewer alla batteria (la leggenda narra che
il batterista dei Grand Funk suonasse con le bacchette girate al contrario, onde
imprimere un battito piu' devastante sui propri tamburi). In generale, una volta
imbattutoci nelle forme di rappresentazioni musicali dal tono quasi primitivo
dei Grand Funk, si ha l'impressione di un terremoto inarrestabile pronto a
travolgerci ed a...."ucciderci".... Una traccia come INTO THE SUN e'
assai indicativa sull'energia incontenibile e debordante "vomitata"
sullo spettatore di turno: il brano si apre con una lunga, ipnotica apertura
"elettrico-blues", sfociante conseguentemente in una minacciosa
ritmica pseudo-funky sulla quale irrompe l'inquieto e lancinante cantato di
Farner; INTO THE SUN si muove sui binari di un heavy-rock-blues sferzante e
contagioso, aperto alle piu' disparate forme improvvisative. Infatti, nelle
esecuzioni live, anziche' esaurirsi in dissolvenza (come nella versione in
studio) si assiste ad una breve pausa, preannunciatrice del caos che di li' a
pochi secondi si impossessera' di un estasiato ed impaziente pubblico:
l'accelerazione e' spaventosa, la fine del mondo sembra vicina ma loro
continuano a "stuprare" le orecchie di pubblico indifeso; tanto,
TROPPO e' il pathos orgasmico-cacofonico lanciato dal palco sulla platea, gli
accordi non si riconoscono piu', la musica ridotta al suo stato piu' rozzamente
primitivo, il basso che pulsa come un animale in calore pronto a sodomizzare la
sua femmina, la batteria impertinente, selvaggia e ruggente nell'accezione piu'
estrema del termine.
Da un'immagine simile il lettore non potrebbe ricavare che una sensazione di
incapacita' (da parte dei Grand Funk) di sapersi evolvere o di proporre
originali soluzioni: niente di piu' falso!
A partire dal leggendario ON TIME (1969) i Grand Funk Railroad avevano vissuto
fasi alterne, sebbene contraddistinte da momenti di creativita' assoluta.
Esemplare fu SURVIVAL, quarta opera in studio (e quinta in generale) da parte
del gruppo proveniente da Flint, Michigan.
Il sound globale si rivela piu' maturo ed eclettico rispetto a quello proposto
in altre pietre miliari dell'hard quali GRAND FUNK (il celebre "red
album") e CLOSER TO HOME (edito nel 1970).
A completare il processo evolutivo-definitivo della band americana e' proprio
SURVIVAL. L'album, uscito nel 1971, presentava al grande pubblico le capacita'
in termini compositivi sempre in crescita di Mark Farner, l'autore della maggior
parte del materiale proposto dai Grand Funk.
"Country Road", l'opener, non poteva meglio inaugurare il primo
capolavoro di Farner e Soci: gia' dai primi attacchi ritmici (rozzi quanto
efficaci) si intuisce l'appeal (a tratti irresistibile ed irrefrenabile) del
suddetto LP: voce lancinata e sovracuta, ritmica pulsante e pedissequamente
inquieta nelle sue evoluzioni/accelerazioni, riff di chitarra sporchi sparati a
folle velocita' esecutiva; un perfetto esemplare di compattezza ritmico-sonora.
Segue "All you've got is Money", la quale dopo una travolgente
apertura di stampo "funk/blues" si lascia "trasportare" in
un ipnotico, avvolgente, ostentato assolo a cui fanno da contrappunto le urla
"primal-scream" di Farner e Brewer, testimonianza, quest'ultima del
senso di anarchica liberta' intrinseca nella band: a tale ascolto, il
sottoscritto si immagina sperduto in una caverna, circondato da anarchici uomini
primitivi, dediti ai loro sgolati, incomprensibili canti, supportati fedelmente
da animali in calore fra loro e sempre pronti ad inseguirsi, eroticamente, l'un
con l'altro. Suggestivo e straziante, brivido assoluto che viene tracciato come
un solco sulle nostre schiene.
"Comfort me", la terza traccia, e' una delle migliori composizioni in
assoluto di Farner, un ideale incrocio tra le sonorita' grezze e taglienti del
"sound-Funk" ed una spiccata vena melodica, arricchita da cambi di
tempo sincopati che donano al brano un insolito pathos ed espressivita'
esecutiva: i toni sospesi tra drammatico e ritrovato senso di liberta' si
fondono egregiamente in questa superba ballata, e ne fanno uno degli highlights
di tutto l'album.
"Feelin' alright" chiude il lato A; si tratta di una cover, essendo
stata composta dall'ex-Traffic Dave Mason: un rock-blues impreziosito da una
sezione centrale nella quale spicca il talento di Farner come chitarrista: in
questo frangente non e' la potenza il comune denominatore dei suoi celebri
attacchi furiosi alla chitarra, bensi' il gusto con il quale le note vengono
piazzate in tale contesto: i fraseggi sono avvincenti quanto trascinanti e
rendono praticamente perfetta l'esecuzione strumentale da parte della band,
ineditamente misurata e senza eccessi strumentali a loro congeniali.
Il lato B si apre maestosamente con "I want freedom": un imperioso
intro di tastiere apre il varco alla devastante batteria di Brewer sulla quale
svettano le voci sdoppiate in controcanto di Farner: la sua ugola raggiunge
vertici stratosferici, lancinante come mai prima d'ora: un'introduzione dai
tratti fortemente emotivi e strazianti: sembra quasi la voce di Farner sia sul
punto di commuoversi e di "cadere" in un pianto carico di profondo
pathos e richiesta di solenne liberta'. L'accento conferito a "I want
freedom" e' innegabilmente di stampo gospel ed i lancinanti vocalizzi del
chitarrista/cantante rendono in pieno l'emotivita' interpretativa e l'"evocativita'"
di tale traccia.
"I can feel him in the morning" riprende il tema della "solennita'"
presente in "I want freedom", solo con toni piu' pacati ma non meno
emozionanti: si tratta di una splendida ballata, con, come
"sottofondo", strazianti acuti da parte di una vocalista (che si
tratti dello stesso Farner?... questo non e' dato saperlo... a voi la
risoluzione dell'enigma...): il testo non tradisce l'epicita' del brano e lascia
intuire le pene sofferte per chissa' quale persona andata perduta e mai piu'
ritrovata. "Leggo" in questa traccia un messaggio sottilmente etereo e
sfuggente, che circonda, avvolge le note di "I can feel him in the morning"
di una non ben definita aura mistico-onirica, che impregna la ballata di
profondo pathos e doloroso ma sostenuto dramma.
Infine, una debordante, "spiazzante", selvaggia rivisitazione del
classico "stoniano" "Gimme Shelter", probabilmente il VERO
capolavoro di questo storico caposaldo del primo hardrock americano. Un torrente
di note in delirio scaraventarsi l'una addosso all'altra, senza il tempo di
poter meditare.
La voce, rabbiosa e vomitata, di Brewer e' perfetta in questo ensemble di
"violenza musicale"; la chitarra di Mark Farner e' piu' stridente che
mai, il basso sorregge e compensa la batteria creando un "wall-of-sound"
di rara potenza e spietatezza, con un finale tra i piu' memorabili di tutta la
storia del Rock: una nebulosa sempre sul punto di scoppiare, uno squarcio di
magma eruttante con riffs che si contorcono e basso e batteria completamente
impazziti: gli acuti non sono piu' acuti ma grida schizophreniche
inter-sovrapporsi fra loro, mentre la batteria sembra, solo in apparenza,
seguire un proprio anarchico percorso... L'apocalisse e' prossima a noi, la
rabbia non ancora del tutto sbollita, le nostre menti "contuse", in
ginocchio di fronte al "vulcano sonoro" prodotto dal trio. Uno dei
finali piu' suggestivi, roboanti e cataclismici di sempre.
Raramente in una sola traccia si era udita una sinergia tecnico-esecutiva cosi'
fiammante e fuori da ogni immaginabile schema. Solo gli Stooges con FUN HOUSE vi
erano riusciti, un anno prima.
SURVIVAL e' testimonianza della veemenza strumentale di Farner-Brewer-Schacher,
ma anche, allo stesso tempo, di una verve creativa difficilmente riscontrabile
negli album successivi, capace di fondere ballate con i piu' arcigni, monolitici
riffs verso i quali abbiate mai avuto il coraggio di imbattervi.
Parola di.... una mente
tellurica.....
ALAN
J-K-68 TASSELLI
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