11-10-2002
DAVID
BOWIE: mille considerazioni per
mille
diverse facce
Non
e' stato mai facile esprimere un giudizio compiuto su DAVID BOWIE,
artista
multi-mediale, compositore di melodie spesso accattivanti, decadenti,
provocatorie,
primo vero esempio di "marketer" dell'industria discografica.
Con
Bowie, il Rock acquistera' un'accezione di Universalita' ben piu' ampia
e
rivisitata, rispetto agli ideali proposti dalla generazione a lui precedente;
nondimeno
egli avviera' con spudorato coraggio e classe sopraffina il concetto
di
"culto dell'immagine", che, col passare degli anni (e degli albums da
lui incisi)
diverra'
supremo sinonimo bowiano, abbracciando le piu' disparate culture e mostrandosi
come
via
espressiva transgenerazionale. Bowie e' il primo vero "trasformista"
in
campo musicale: prima di lui il massimo della tragressione e sensualita'
era
rappresentato da Mick Jagger degli STONES, almeno in quanto a platealita'
e
forti connotati sessuali esibiti in scena, durante le ben note bollenti
performances
di pura matrice stoniana. La sofisticazione e la maniacale cura
del
proprio abbigliamento (sia estetico che... interiore) verra' posto come
frammento
generazionale fra tutto cio' per cui il rock'n'roll si dichiarava
"espressione
del Diavolo" (non-che' "figlio sporco" irrecuperabile quanto
depravato
caratterizzato da "consuete" folli notti all'insegna di orgie infinite
accompagnate
da un sentimento di incontrollabile iper-euforia, provocata
dall'abuso
massiccio di droghe pesanti e/o alcolici) e l'immediatamente successivo,
primordiale
quanto urgente bisogno di poter manifestare dichiaratamente (senza
troppi
fronzoli o complessi di sorta) la propria sessualita'. Ma una sessuali-
ta'
non "troppo" comune a quella espressa dal "cattivo figlio"
Jagger (e da
altri
suoi illustri contemporanei), bensi' una condizione sessuale parzial-
mente
indefinita, ammiccante ad una ambiguita' inaudita prima di allora,
e
percio' oggetto di immediato scandalo e relativo, sorprendente successo
per
il trasgressore/propugnatore di volgare, disinibito eccesso. David Bowie si
sarebbe
imposto come l'icona che ebbe il preciso merito di travolgere la condizione di
"sto-
machevole"
perbenismo il quale, spesso, aveva portato a vergognose opere di
censura
(ai danni dell'establishment rockistico) da parte di una Societa'
bigotta
e squallidamente moralista (si pensi al suo "fuorilegge" piu'
"rinomato" e selvaggio, Jim
Morrison
dei Doors). Se possibile, Bowie andra' anche oltre alle velleita' del
"FU-MORRISON",
auto-dichiarandosi omosessuale nel bel mezzo di una trasmissione
all'interno
degli studi della BBC inglese, presumibilmente alzando vertiginosamente gli
indici di
ascolto
di quella serata (non siamo ancora entrati nell'era della trash-tv o del
gossip-tv,
dove
tutto viene presentato come il contrario di tutto e dove il niente e'
assimilabile al niente).
La
leggenda narra che fu proprio grazie a quella inusuale, sconvolgente, cosi'
spregiudicata
affermazione che la carriera di Bowie comincio' a decollare. Era il 1972,
dopo
tutto, e Bowie era da poco entrato nell'anno di ZIGGY STARDUST, da alcuni
ritenuto
l'anno
piu' lungo della Storia del Rock (titolo da condividere con il 1967, a mio
stret-
to
parere). A quel tempo, il futuro DUCA BIANCO aveva alle spalle un disco
d'esordio
non
troppo fortunato, illuminato pero' da una composizione che fece
epoca,
SPACE ODDITY, in linea umorale perfettamente "politically correct"
con
le vicende dello sbarco sulla Luna da parte di Armstrong e soci, avvenuto,
come
tutti ricordano, la notte tra il 20 ed il 21 Luglio 1969. La saga del Major Tom
risulta
essere
oggi una delle piu' struggenti "vignette" di rock spaziale mai
composte, antici-
pando
quel senso di decadenza e struggimento sonoro-plateale che costituira'
il
futuro marchio di fabbrica bowiano. Dopo le infatuazioni saturo-elettriche/
hard-rockistiche
di THE MAN WHO SOLD THE WORLD, raccolta di brani alquanto
fiacca
e "pretty unfocused", il Nostro cambia completamente direzione ed
incide
il
bellissimo HUNKY DORY, edito nel 1971. Gli omaggi a BOB DYLAND ("Song
for
Bob Dylan"), ANDY WARHOL ("Andy Warhol") sono tra gli episodi
migliori
del
disco, sebbene gli "highlights" siano costituiti da CHANGES (premonitri-
ce
del trasformismo ingombrante che segnera' l'intera carriera discografica
di
Bowie) e la sofferta, tesa, memorabile LIFE ON MARS, all'interno della
quale
ricorre il tema dello spazio (e delle conseguenti possibilita' di una vita al di
fuori
del suolo terrestre), vero epicentro ideologico di David; LIFE ON MARS verra'
anche giu-
dicata
come uno dei vertici lirici mai raggiunti dall'uomo dalla pupilla paralizzata:
la
sensazione che si percepisce all'ascolto e' quella di un sensuale, dolce
navigare ondeggiante
sopra
il manto spaziale, durante un eterno sogno senza apparente necessita' di
risveglio;
la
suggestione diviene acuto sinonimo di perdita dell'inconscio, mentre una voce
guida
il
nostro senso di smarrimento verso una risoluzione dell'anima e conseguente
utopia.
Giungiamo
al 1972, ora. Si trattera' dell'anno di definitiva consacrazione da parte di
David Bowie.
THE RISE AND FALL OF ZIGGY STARDUST AND THE SPIDERS
FROM MARS e' la chiave
di
accesso all'immortalita' artistica, un perfetto, esaltante connubio di sonorita'
"spacey-rock" e
bozzetti
narranti una decadenza e senso di latente peccato, quel peccato
derivante
dall'imposizione della propria sessualita' perversamente ambigua,
irrefrenabile
nelle sue overdoses di "fellatio"
e
promiscui incontri ravvicinati che lasciano intendere chissa' quali scabrosi
connotati
in chissa' quali lussuriose notti, senza mostrare la minima intenzione
di
volersi alzare dal letto onde tirare su la puntina del giradischi..... La
musica
continua, incessante, debordante.... e' un ballo di infinita, contorta
sessualita'...
a cui nessuno rinuncia, ed di cui nessuno sembra vergognarsi...
L'epopea
di ZIGGY STARDUST si colloca in un momento cruciale per
l'evoluzione
della musica rock; da tempo si erano smarriti e poi annientati
gli
"adorati" perversi eroi di una generazione che sembrava destinata
a
divenire immortale (tra il 1969 ed il 1971 perirono MORRISON, JOPLIN, HENDRIX,
BRIAN
JONES),
ma che in realta' era stata travolta dal suo stesso principio di
trasgressione,
sacrificando, in nome del Mito, quei martiri cosi' incompresi,
cosi'
negativizzati da una stampa frettolosa e superficiale; martiri, dunque,
soprattutto
di se stessi, prima che del consumismo o delle sfrenate ambizioni dei loro
ex-discografici.
A Bowie non interessava morire per poi rinascere sotto forma di Divinita' da
venerare,
sulla cui tomba poter versare whisky o ricevere dediche da parte di freaks
spostati,
drogati
od alcolizzati. La musica, per l'artista londinese, non si e' mai dimostrata
essere
un fine attraverso il quale poter esprimere senso di liberta', frustrazione,
immenso
piacere
nel nuotare in mezzo a lussuria, droga o poter usufruire di dosi in quanti-
ta'
industriali di sesso; casomai a Bowie interessava la musica POP onde
voler
raggiungere altri scopi, abbattere orizzonti sconosciuti, scoprire nuovi
inediti
tracciati mai battuti da alcuno, in precedenza; in definitiva, egli
era
la sintesi dell'essere onnivoro in perenne ricerca del "nuovo" quanto
istantaneo
"demolitore" di ogni cosa appartenente al suo passato, anche il
piu'
recente. Una volta raggiunto, travalicato l'ennesimo traguardo, Bowie
avrebbe
sagacemente perseguito altri progetti, nel tentativo di divorare
la
sua acuta ansieta', la sua profonda, intrattabile nevrosi. In essi il Duca
Bianco
avrebbe usufruito di "nuove droghe" per la mente, per quella mente
cosi'
avida di tendenze, contro-tendenze, inusuali sonorita'; ingoiatore
di
un futurismo spesso non del tutto digeribile ed adatto a palati a medio-
lunga
scadenza. Bowie non si deve capire. Si deve seguire. Il cambiamento era vita e
non
necessita’ di sopravvivenza. Era lui stesso sinonimo di sopravvivenza, non
forzata,
bensi'
congenita, e quindi indolore. Mr. Stardust, insieme a tutte le sue glaciali,
roventi
contraddizioni,
aveva, a suo modo, promosso l'immagine del rock'n'roll a "uomo adulto"
e
consapevole di doversi promuovere adempiendo con grande perizia, furbizia ed
intelli-
genza
alle regole del mercato imperante, magari giocando d'anticipo, onde adattarsi
con
classe e grande senso camaleontico, in modo da non dover affrontare, come spesso
capita
ad altri artisti molto piu' sprovveduti ed ingenui, il pericolo di una incom-
bente,
inevitabile "estinzione". David Bowie potrebbe vivere anche 200 anni,
ma
egli
sapra' sempre rinnovarsi, sebbene va menzionato che "rinnovamen-
to",
nel complesso concetto bowiano, non ha MAI significato di "sputtanamen-
to",
anzi: egli ha reso il trasformismo-glam una vera e propria, distinta Arte.
Ad
essere del tutto sinceri, e volendo rispettare ogni connotato storico della
vicenda,
fu MARC BOLAN l'indiscusso iniziatore del "culto da travestimento",
alias
il proporre una nuova formula di musica pop abbinandola a costumi
sgargianti,
gran dispiego di lustrini e paillettes, sintesi assoluta di ses-
sualita'
sospesa tra ambiguo ed indefinito. Bolan fu, dunque, il promulgatore,
anche
se a Bowie ando' il merito di aver saputo catalizzare le sottili
provocazioni
"glamour" del bel Marc, coniugandole successivamente al
proprio
spirito e talento di oltraggioso performer e valido creatore di suggesti-
ve,
struggenti melodie, sublimamente complementari ai testi ed espressione
diretta
della personalita' di un artista in perenne bilico tra solennita' e
imbarazzante
senso di folle ambiguita' anarchica.
Spesso
si e' detto che Bowie abbia anticipato, con somma capacita' d'intuito,
alcune
tra le tendenze piu' in voga negli anni '70. Il sottoscritto non
e'
d'accordo per quel concerne questa valutazione: in realta' Bowie non
ha
anticipato nulla, ma tale era la sua scaltrezza, tale fu il suo innato senso
di
volersi rimettere sempre in gioco, (a discapito della sua stessa immagine
che
precedentemente si era scolpito) che, agli occhi (ed orecchie altrui)
il
Duca Bianco appariva pressoche' inespugnabile, inattaccabile, assoluto
padrone
di folgoranti intuizioni e ardente desiderio votato alla piu'
radicale
delle innovazioni. La sua musica non acquisira' mai una
importanza
sociologica pari a quella dei BEATLES o dei ROLLING STONES. Non
ha
scritto melodie di pari impatto o trascendentale armonia, cosi' come
a
lui non si deve un inno che abbia saputo interpretare, descrivere una
generazione
(come invece PETE TOWNSHEND sintetizzo' in MY GENERATION).
Bowie
lo si puo' definire come un artista "non-generazionale", una spietata
macchina
che
si evolve a seconda delle innovazioni che impone la Societa', senza che essa
venga pla-
giata
o spudoratamente clonata. Qualcuno potrebbe criticare la mancanza
cronica
di autenticita' insita nel personaggio bowiano; pur avendo dato alla luce
memorabili
schegge melodiche, frutto del suo piccolo genio visionario,
egli
non si e' voluto sbilanciare eccessivamente su un sentimento che, con
ogni
probabilita', lo avrebbe inesorabilmente travolto e poi annientato,
artisticamente
parlando. Ecco, quindi, spiegato lo scetticismo che da piu' di
tre
generazioni "colpisce" gli spettatori/ascoltatori considerati normali
acquirenti
di musica POP. Nulla di grave. Il personaggio-Bowie dividera'
sempre
nettamente in due parti antitetiche l'opinione pubblica, sia
che
si tratti di stampa specializzata, sia si tratti dei propri fans,
vecchi
e nuovi. D'altronde cio' che spiazza realmente l'interessato di
musica
e' il concetto di totalita' che Bowie ha di se stesso: a volte
futurista
e premonitore, altre volte fantoccio insano di mente pronto a
risorgere
il giorno successivo, magari sotto le vesti di crooner malinconico e decadente
Questo
e' DAVID BOWIE; ma questo potrebbe anche essere il suo esatto contrario.
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