05-07-2002
THE
STOOGES’ "FUN HOUSE"
"FUN
HOUSE" - THE STOOGES - Quando il Rock osava giungere ai confini della
realta' Un lungo, fastidioso, ficcante sibilo alla fine. Il rantolio, quasi soffocato,
di un cantante "non-cantante".
Elettroencefalogramma piatto. Il
disco e' finito, ed il Profeta del Nulla
abbandona la sala di registra- zione
per dissociarsi, una volta di piu',
da un Mondo, da un contesto che non
lo puo' capire. Per ritornare, il
minuto successivo, dalla sua, cer- tamente
unica, sua amica: una malsana, incontrollata
e sfuggente pazzia, di cui lui ne
e' l'infallibile esecutore, il
"killer" sempre pronto, all'erta in un angolo troppo buio e troppo de- serto, troppo sinistro per essere bat- tuto da normali terrestri.
Cosi' io ho interpretato il finale di
"FUN HOUSE", che il sottoscritto non esita a definire una delle produ- zioni piu' scioccanti avvenute nella Storia del Rock. Ed
e' proprio lui, IL PROFETA DEL NULLA,
PROFETA DI UNA REALTA' DISTORTA dall'uso
massiccio di droghe, allucino- geni
(e chissa' quant'altro ancora) che faranno di IGGY "L'IGUANA" POP,
il primo vero legittimo precursore di
un rock nichilista ed inneggiante all'autodistruzione,
simbolo di un'anar- chia musicale ed ideologica assurdamen- te in anticipo sui tempi, e per questo terribilmente anacronistica ed incom- prensibile, all'epoca. Siamo
nel 1970, e gli STOOGES si sono formati
da poco piu' di un anno. Hanno alle
loro spalle il loro disco d'esor- dio
"THE STOOGES", che gia' focalizza
egregiamente il folle status di anar-
chia e di stralunata schizophrenia di
IGGY e Company. Brani "scomodi" come
NO FUN o I WANNA BE YOUR DOG rivelano
le inarrivabili doti di nichilista auto-distruttivo
dell'iguana POP, il quale, per sua
stessa ammissione, si ispira molto
eloquentemente ad un altro grande
"Principe della Trasgres- sivita'"
di quel periodo, il mito per antonomasia del Rock Maledetto, JIM MORRISON, il quale, durante un concerto affascina talmente POP da mandarlo in delirio, al punto tale
da fargli prendere una decisione che gli cambiera' la vita per sempre: IGGY vuole emulare il suo eroe dionisiaco, ed anch'egli si cimentera' nella figura di performer oltraggioso. Il
disco pero' non ottiene alcun gradi- mento
da parte di un pubblico forse troppo
intento a combattere con slogan pacifisti
la guerra nel Vietnam, un pub- blico ingenuamente ignaro di cio' che accade nei bassifondi
cittadini, un degrado urbano che
le canzoni dell'epoca certo non ritrag-
gono, a favore di temi piu' accomodanti
e meno azzardati. In poche succinte parole gli STOOGES ed in particolar POP diverranno le icone post-summer-of-love di un movi- mento celebrante il degrado morale e psichico della razza umana, auto-eri- gendosi come "borderliners" di una Societa' votata
al consumismo ed all'e- stremo
culto del benessere. Giunge il 1970
e tutti questi temi sono
egregiamente esposti in FUN HOUSE, opera
seconda del gruppo, il quale osera'
ancor di piu' nell'alzare il tiro di
una pazzia musicale che proprio nei solchi
del sopra-citato LP tocchera' vertici
impensabili per l'epoca. Le prime
tre tracce non sono altro che un
antipasto, un timido assaggio del delitto
"sonoro-psichico" che si mate- rializzera'
nella seconda parte dell'album. "DIRT", in un certo senso, anticipa
le atmosfere ai confini della realta'
del LATO B ed a mio modesto parere tale
brano rappresenterebbe il vertice artistico
dell'LP, un blues distorto ed
assolutamente colmo di magnetismo, con
la voce di Iggy finalmente degna protagonista,
abilmente coadiuvata dal disordinato
ma efficacissimo chitarri- smo di
RON ASHETON, forse uno dei chi- tarristi
piu' sottovalutati della storia del
Rock (si tratta dopo tutto, del PRI- MO
VERO CHITARRISTA PRECURSORE DEL PUNK MODERNO,
mica poco, eh!). "DIRT"
termina con un senso di vuoto e di
attesa che sfociera' bestialmente nella
gia' citata seconda parte di FUN
HOUSE. Un attacco sinistro e
minaccioso di chitarra scandisce
l'inizio di 1970, primo vero
assalto alle coronarie di un
ascoltatore che fra pochi minuti verra'
indelebilmente "stuprato" dal- incredibile,
inaudita miscela di rabbia,
persecuzione, rantolii e istin- to
animale che pervade tutta l'opera e
che conferisce ad essa un senso di smarrimento
totale, sorta di stordi- mento dei
propri sensi, forse in spa- smodica
attesa di un "omicidio sonoro" che
restera' negli annali come una delle piu'
audaci proposte musicali mai udite. Stiamo scorrendo, gia' ammaliati, in- chiodati alla poltrona, il caotico, peccaminosissimo finale stile-"primal
-scream" di 1970, nel quale IGGY,
finalmente, acquista in maniera defini-
tiva il titolo, ultra-legittimo, di
"performer ai confini della realta'".
Siamo in prossimita' di un'Apocalisse
musicale, e le grida scorticatissime
e abrasive di POP danno la sensazione
di trovarci all'interno di un incubo
dal quale sembra impossibile svegliarsi.
E' il trionfo della voce (quasi) hard-
core di IGGY, genialmente accompagnata
da un disconnesso, stralunatissimo sax,
in quest'occasione suonato da un
formidabile STEVEN McKAY, il quale conferisce
un senso di vuoto infinito unita ad
una disperazione senza fine. "I
FEEL ALRIGHT" ripete ostentando sem- pre
piu' le sue scartavetrate corde vocali
POP, quasi a segnare un destino gia'
segnato ed al quale non ci si puo' sottrarre
minimamente. A suo modo, decadente.
Esaurito il "calderone-erotico-sado- maso" di una tremenda 1970, segue il brano successivo, la TITLE-TRACK, l'ideale proseguimento di 1970, quasi come se si trattasse di
un corpo, di un'entita' a se stante e persa nella
sua aurea di eterna infelicita' e rabbia
metropolitana. In questo frangente
il sax di McKAY e' magistrale ed
"ingrassa" egregia- mente
l'atmosfera ai confini della realta',
una realta' oramai non piu' reale
ma bensi' una "non-realta'". E'
un festival di macabre, ultra- distorte
e selvaggie sonorita', un melting-pot
"grandguignolesco" che spazza
via ogni luogo comune e pone come
baricentro il grido, malato e
drogato, solitario dell'Iguana. Chitarra,
sax, voce ed una secca, secchissima
batteria sembrano seguire percorsi
autonomi sebbene in realta' tutto
venga miracolosamente tenuto in
bilico da una strettissima fibra che
rimarra' intatta fino alla fine del
disco. E' un party inneggiante al
lato oscuro di una Societa' di un
paese eccessiva- mente benpensante,
del quale gli STOO- GES sono gli
infallibili, spietati alfieri.
Poi viene il finale. Chiunque sia affetto
da problemi alle coronarie o non
riesca a concepire un marasma di
follia ed autodistruzione simile, per
favore, si faccia da parte e lasci sgorgare
l'infinita ed indescrivibile rabbia
di questi quattro giovanotti di
Detroit. "L.A. BLUES" non
e' affatto un blues ma un
inverosimile ed indigeribile accozzaglia di "primal-screams",
chitarre ultra-sature, anarchica bat-
teria e sax in bilico tra inconcepibili
strilli e stonature volute e momenti
di brevissima lucidita', "toppate"
da un IGGY POP elevato all'ennesima
potenza (immaginate voi cosa voglia
dire, dopo esservi assorbiti le ultime
due tracce...), incurante dell'assurda
anti-commercialita' di un solco simile:
una celebrazione al rumore piu' primi-
tivo iconoclasta, anarchico, spostato
e nichilista che si possa immaginare
(se sapete immaginare!...). La
fine, ora: quel sibilo, insolente ed
infausto, e la voce di IGGY POP esausta
e rantolante, ad annunciare l'epilogo
di una vicenda che non ha eguali
nella quarantennale storia del Rock.
Molti "punk-heroes" o presunti tali dovrebbero pensare una decina di volte prima di affermare di aver inventato qualcosa, e, casomai avreste dei forti dubbi, andate a ritroso, MOLTO a ritroso, correte verso il
1970 e cerca- te di rendervi conto
che cosa quest'uo- mo, Iggy
l'Iguana, sia riuscito a co- struire
in un'era fin troppo proibita e
perbenista, assai pericolosa per chi volesse
spingersi oltre il consentito. Quando
si dice "un artista anticonfor- mista".......
Non uscirete "vivi" da questo disco....
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