01-05-2008

 

 

 

 

IL DECENNIO DEL VINILE – Il Rock a 33 Giri

 

 

Il decennio dei Settanta non ebbe lo stesso impatto rivoluzionario ed iconoclasta dei Sessanta: non ebbe la sua emotività e carica innovatrice, né la contagiosa caoticità che un urgentissimo bisogno di cambiamento sempre genera. Per certi versi, i Seventies ne rappresentarono l’ideale antitesi, o, se preferite, il suo più logico successore e contraltare. Alla spontaneità ed ingenuità dei Sessanta, si sostituisce l’arroganza e pretenziosità di una Musica Rock oramai adulta e colta, scevra dalle spensieratezze di gioventù e degli ideali di pace amore e libertà che costituirono, in particolar modo nell’era del Flower-Power e Contro-Cultura Americana, i luccicanti distintivi di un decennio ineguagliabile. Ma, come spesso capita ogni qualvolta si voglia lucidamente analizzare un determinato periodo storico, è necessario partire da una (sorta di) ‘fase preistorica’, ovvero offrendo un breve excursus temporale  a ritroso: mi riferisco a quel lasso di tempo (grosso modo dal 1966 al 1970) in cui si sono avvicendati tra i migliori e più ispirati musicisti di sempre; non a caso, da molti critici esso è considerato il pinnacolo di una fase creativa ed artistica in esponenziale ed inarrestabile crescita: nell’arco di a malapena tre-quattro anni, il mondo ha potuto assistere ad un’evoluzione qualitativo-musicale senza precedenti: ovvero: come passare dall’ultra-seminale ‘Pet Sounds’ dei Beach Boys (1966) al decantato ed osannatissimo ‘Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band’ (tutt’ora in cima alla lista dei ‘migliori album di tutti i tempi’, se non altro per aver sancito definitivamente il passaggio da musica pop intesa come ‘ballo rituale’ a musica intesa come Arte), passando per la definitiva affermazione della psichedelia (magistralmente sintetizzata ed immortalata dal genio di Syd Barrett, con ‘The Piper At The Gates Of Dawn’ dei Pink Floyd, anno di grazia 1967), prima, e del rock-blues/hard-rock, poi; infine, si assisterà all’affermazione di un genere che dominerà la scena per tutta la prima parte degli anni ’70: il Progressive-Rock. Progressive che, più di qualsiasi altro movimento musicale, fu specchio fedele della maturità ed ambiziosità raggiunte dall’establishment rockistico sul finire dei ’60.

 

Il "ROCK PROGRESSIVO" ha origine e sviluppo nella fervente Gran Bretagna degli Swingin' Sixties, nel momento di dominio assoluto da parte di Beatles e Rolling Stones. E' francamente impossibile stabilire una data certa relativa all'inizio di questa cruciale escalation creativa, sebbene a grandi linee si possa proporre il 1966 quale ipotetico anno di svolta. I Fab-Four, con REVOLVER, diedero coscienza a tutto il mondo degli straordinari prodigi di cui si era capaci utilizzando a fondo (e con smisurata audacia) ogni trucco a loro disposizione all’interno di uno studio di registrazione (i celeberrimi ‘Abbey Road Studios’), come d'altronde dimostreranno a 360° con il Sergente Pepe, l’anno successivo); grazie alle sempre più sorprendenti tecniche di ricerca del suono e la scoperta di nuove dimensioni musicali, i Fab Four divennero sinonimo di innovazione ed avanguardia. I Beatles furono la sintesi di questo "nuovo concetto", e la musica ne beneficiò, raggiungendo inaudite vette di versatilita' artistica, mostrando a piu' riprese un'obliquita' compositiva senza eguali: a modo loro, furono "iniziatori" di una allora ancora sconosciuta ideologia-musicale-creativa. Il Beat lentamente muore, lasciando spazio al nuovo Verbo Psichedelico, in parallelo alla definitiva consacrazione del Rock-Blues: i contenuti si fanno più aspri e violenti: è in corso una rivoluzione (musicale, sociale, politica) senza precedenti, che mai più si ripeterà allo stesso modo. Parallelamente ai moti sovversivi del ’68, anche la musica rock vive una fase di profondo mutamento; alle frange psichedeliche e rock-bluesistiche si accompagnano composizioni e produzioni sempre più ambiziose: alla semplicità ed orecchiabilità del periodo ‘Beat’, subentrerà la complessità ed eclettismo di una musica inedita e rivoluzionaria; con essa, cresce notevolmente anche l’abilità strumentistica dei suoi interpreti, fino a raggiungere vertici di assoluto istrionismo e virtuosismo: non più i classici, semplici tre-quattro accordi, non più il formato-canzone legato quasi indissolubilmente ai 4/4, bensì brani che superassero spesso e volentieri la durata-media di un 45 giri: difatti, quest’ultimo, sul finire dei Sixties, diviene quasi ‘Preistoria’, in quanto considerato troppo limitato (e limitante) ai fini di contenere le nuove urgenze creative: con l’avvento e definitiva esplosione del Rock Progressivo inglese, si afferma un nuovo ‘status-symbol’: il 33 giri: il 33 giri quale forma di più ampio e massimo respiro compositivo, all’interno del quale sviscerare tutta la versatilità e desiderio di sperimentazione del musicista. Apparirà tipico da parte di molti gruppi prog, in special modo nella prima parte dei Seventies, dedicare un intero lato del disco a suites spesso superanti i venti minuti di durata (aspetto che in seguito diverrà ‘norma acquisita’…).

Il ‘Rock Progressivo’ coincide con la fase più significativa di quell’inarrestabile evoluzione di cui narrato sopra: più di ogni altro genere (o sotto-genere) ha sintetizzato il concetto di maturazione ed eclettismo artistico-qualitativo della Musica Rock: se non sempre da un punto di vista compositivo, senz’altro per quel che concerne una sconfinata esplorazione di nuove commistioni musicali, abbinamenti sonori ibridi ed eccentrici, tripudi di tempi dispari, continui cambi di tempo e contro-tempo, utilizzo di strumenti antichi e tradizionali, talvolta ‘fusi’ in altri di stampo orientale, africano e mitteleuropeo; i testi, al pari delle musiche, si fanno più obliqui, trasversali, evocativi, suggestivi, ma al contempo anche pretenziosi e, in molte circostanze, francamente incomprensibili. Trionfa l’edonismo strumentistico e la sinfonia classica in chiave-rock (‘Emerson Lake & Palmer’), il pop-sinfonico evocativo e pomposo (‘Yes’), quello teatrale e melodrammatico (‘Genesis’, per merito soprattutto del suo principale istrione e musa ispirativa: Peter Gabriel), le ardite propensioni avanguardistiche di quel ‘laboratorio musicale’ facente capo al ‘Mr. Progressive per antonomasia’, quel Robert Fripp padre-padrone-boss della sua creatura prediletta, i ‘King Crimson’ (il cui immortale ‘21st Century Schizoid Man’ (Ottobre 1969) meriterebbe quantomeno il titolo di ‘battesimo’ del nascente Movimento Progressivo); senza dimenticare, naturalmente, i ‘Van Der Graaf Generator’, specchio della personalità contorta ed enigmatica del loro leader, quel Peter Hammill superbo cantore di nevrosi ed incubi del subconscio, oltreché dotato di una delle voci più graffianti e cristalline del tempo); i ‘Jethro Tull’, guidati dal dispotico Ian Anderson, il cui flauto costituirà (e per la prima volta in ambito rock) l’assoluto marchio di fabbrica ed epicentro del complesso. Infine, citazione a parte per la leggendaria ‘Scuola di Canterbury’, ‘scuola’ che ha sfornato alcune tra le menti più brillanti, folli e rivoluzionarie del Prog inglese, a cominciare dai Soft Machine di Kevin Ayers (anche se abbandonerà dopo il primo album per dedicarsi alla carriera solista) e Robert Wyatt, contraddistinti da un originalissimo ibrido di musica Jazz, Rock ed avanguardia; i Gong di David Aellen, personaggio quanto mai singolare, in bilico tra razionalità ed allucina(n)ti scenari, un artista forse secondo solo a Zappa od a Captain Beefheart, in quanto ad inusualissime destrutturazioni e geniali bizzarrie musicali; ed i Caravan, che dei tre combi era quello sicuramente dotato di maggiore impatto melodico.

 

Contemporaneamente all’affermazione del Prog-Rock, si fa largo una corrente musicale coniata con il titolo di ‘Hard-Rock’. Che altro non sarebbe che un’evoluzione del Rock-Blues di fine-decennio passato, ma un blues molto più aspro, distorto, spigoloso ed ultra-elettrificato, spesso seviziato e brutalmente pestato, tale da renderlo quasi irriconoscibile. E proprio a causa di questi aspetti portati all’estremo (e talvolta fracassoni), la critica del tempo ha sempre disdegnato (e talvolta deriso ed annichilito, quasi offeso, come nel caso di Grand Funk e Uriah Heep) codesta corrente musicale. In realtà non si tratta di involuzione (o Devoluzione, se preferite), bensì di un’evoluzione (soprattutto in termini di virtuosismo e potenza sonora): volendo essere certosini, il Rock-Blues subisce una trasformazione netta e radicale, metamorfosizzandosi in Hard-(Rock)-Blues: almeno, questo per quanto riguardo la fine dei Sessanta ed in particolare all’indomani dell’uscita del primo album dei Led Zeppelin: un concentrato di sinergia blues e matrice ‘hard’: né propriamente ‘blues’, né propriamente ‘hard’, ma una sorta di ‘inedito limbo musicale’, quale teatro di nuove dimensioni sonore e concettuali. Già con l’avvento dei Cream di Clapton, Bruce e Baker (i quali introdussero per la prima volta il concetto di ‘improvvisazione’ all’interno di parametri-rock), e di geniali e rivoluzionari chitarristi come Jimi Hendrix, prima, e Jeff Beck, successivamente, quelle ‘spigolature’ di cui accennato poche righe sopra, cominciarono a manifestarsi, sebbene in forma ancora embrionale e non ben definita. Per concludere con gli Who: ‘hard prima dell’hard’ (almeno per quel che concerneva le loro infiammate esibizioni dal vivo: quasi un’entità aliena, la formazione live, rispetto a quella ‘da studio’…): basti ricordare l’uso che Pete Townshend fece dei famigerati ‘power-chords’ (termine da lui coniato) sui quali, come è ben risaputo, si fonda la base di accompagnamento strumentale dei chitarristi più ‘pesanti’…).

Il vero battesimo sarà però costituito da quella che la stragrande maggioranza di critici ed addetti ai lavori consacrerà ad ‘opera hard per antonomasia’, nonché sua più piena quintessenza: ‘In Rock’ dei Deep Purple (edito nell’Aprile 1970), ovvero: la perfezione (stilistica, strumentale, compositiva) non oltrepassabile; un disco senza tempo e seminale come pochi, mai più eguagliato.

Nello stesso anno, un altro storico gruppo irrompe fragorosamente sulla scena musicale: i Black Sabbath, guidati da un’inquietante figura (forse inconscia creazione dello spirito di Lovecraft…) che si fa chiamare (John) ‘Ozzy’ (Osbourne), sebbene la figura creativa principale sia un chitarrista mancino dalle falangi mozzate (!), dotato di uno stile personalissimo, basato esclusivamente su note basse e distorte, spesso ‘allungate’ attraverso uno speciale distorsore di sua invenzione: ciò che ne scaturisce è una musica tetra, oscura, inquietante, fondata su tematiche quali occultismo, citazioni demoniache, incubi, mondi sommersi e mai più riaffiorati: in definitiva, trattavasi di una sorta di ‘grand-guignol’ trasposto in musica, ‘metal prima del metal’! Il ‘Sabba Nero’, insieme a Led Zeppelin e Deep Purple, costituirà quella che unanimemente viene definita ‘The Holy Trinity Of Hard-Rock’: ‘La Sacra Triade dell’Hard-Rock’.

 

Ma Hard e Prog-Rock non sono gli unici generi dominanti, in quel primo, roboante scorcio dei Settanta: il ‘Glam-Rock’ costituì, anche se per un lasso di tempo tutto sommato breve, l’alternativa allo stra-dominio dei due generi sopra-menzionati, almeno per quel che concernette impatto visivo e (nuove) tendenze: a tratti provocò addirittura scene di isteria collettiva come non se ne vedevano dai tempi di Beatles, Rolling Stones ed i complessi della British Invasion! L’artista ‘glam’ per  antonomasia è Marc Bolan, un ex-hippie (e precedentemente modello di professione) vagamente effeminato, volutamente ambiguo e decadente, forse la quintessenza del ‘dandy’ (Lou Reed e David Bowie permettendo, of course!). Attraverso i T. Rex (abbreviazione dei precedenti Tyrannosaurus Rex, sostanzialmente un duo), Bolan vivrà tre-quattro anni di ininterrotto successo, piazzando un hit dopo l’altro e passando alla storia come ‘icona-glam par excellence’. Morirà in un incidente stradale, il 16 Settembre 1977. Era già da tempo sulla via del tramonto (artistico), solo e dimenticato da tutti: tragica fine per l’ennesima icona-rock tradita da sindrome autodistruttiva (tanto cara a certe leggende musicali di nostra conoscenza…).

Se Marc Bolan fu il principale propugnatore della saga-glam, David Bowie avrebbe invece concepito  la miglior produzione su vinile in assoluto: nel 1972 esce, infatti, ‘The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders Of Mars’, che, insieme ad altre opere-manifesto come ‘All The Young Dudes’ (dei Mott The Hoople – il singolo omonimo fu composto proprio da Bowie medesimo) e ‘Transformer’ del redivivo Lou Reed, rappresenterà fulcro ed epicentro della generazione glam, sia in termini lirici che iconografici.

Isterismi collettivi a parte, il ‘glam’ costituirà un magistrale esempio di ‘epoca effimera’, abitata in gran parte da icone effimere, dedite maniacalmente più alla forma che alla sostanza (con, seppur rare, eccezioni); entro la metà dei Settanta esso era già un lontano (e neanche troppo rimpianto) ricordo, un ‘divertissement’ che, non fosse mai esistito, il Rock non avrebbe certamente perso nulla di rilevante…

 

I Seventies furono anche il decennio in cui si affermò definitivamente la figura del ‘songwriter’  melanconico e dalle inclinazioni fortemente introspettive, sia per le musiche che, in particolar modo, per i testi: vengono trattati temi forti e coraggiosi come la depressione, lo smarrimento generazionale, la perdita dell’innocenza, follia, droga, suicidio. Joni Mitchell, James Taylor, Carole King, Carly Simon e, prima di loro, già sul finire dei Sessanta, la straordinaria e purtroppo sottovalutata Laura Nyro sono tra gli autori più importanti, alcuni dei quali autentici innovatori (Nyro e Mitchell su tutti); senza dimenticare il mai troppo compianto Tim Buckley (dotato di una vocalità estremamente versatile, in grado di passare, con straordinaria naturalezza, da sovracuti tenorili a più dimesse tonalità baritonali); infine, sul versante androgino, impossibile non citare un sublime ‘cantore del mal di vivere’ come Lou Reed. Generalmente non si trattava di musica di immediata percezione: siamo lontani anni-luce dalle sonorità iper-sature e taglienti del tipico rock di inizio-decennio, e stesso dicasi, naturalmente, per gli argomenti trattati. Questa corrente cantautoriale era senza ombra di dubbio molto più rivolta a  persone desiderose di arricchimento interiore e lunghe fasi contemplative ed introspettive, rispetto ai ‘classici’ generi di consumo allora in voga.

 

Questi, grosso modo, i fatti salienti caratterizzanti la prima parte dei Settanta.

 

La seconda parte del decennio vedrà tutt’altro scenario.

 

Già intorno al 1974/’75 il Rock Progressivo aveva manifestato episodi di grave involuzione e sterilità  compositiva: oramai buona parte dei gruppi storici sembrava concepire musica come esclusivo veicolo per pompose auto-celebrazioni, musica ridondante, spesso di mediocre qualità e fine a se stessa. I complessi hard-rock non erano da meno: quel ‘rock pesante’ tanto eccitante e seducente di inizio decennio sembrava essersi irrimediabilmente afflosciato, nonché ammorbidito: ciò a cui si assisteva erano vecchi dinosauri senza più idee e slanci di un tempo, fossilizzati su di una formula stantia e ripetitiva. A questo punto occorreva un drastico cambio di direzione, peggio: un autentico ‘Diluvio Universale’ che spazzasse via quella indigeribile pompa ed arroganza che Yes,  ELP, King Crimson e miriadi di altri gruppi avevano contribuito ad alimentare. Pantagruelicamente.

E… quel ‘Diluvio Universale’ si materializzerà con l’esplosione (o meglio: deflagrazione!) di una nuova corrente che ‘raderà al suolo’ tutto quanto prima esistente: è il 1976 ed una certa ‘Anarchy In The UK’ compare nelle British Charts del Regno Unito: irrompono, sporchi, violenti, cattivi e fragorosi, i Sex Pistols, ‘Le Pistole Del Sesso’. Ma sarebbe più opportuno affermare: ‘IRROMPE LA GENERAZIONE PUNK’!

Con l’affermazione del Punk l’intero immaginario collettivo della musica rock viene stravolto e ridisegnato, sia iconograficamente che musicalmente, a cominciare dal motto programmatico dei punksters della prima ora: ‘NO FUTURE’ – nessun futuro; e nichilismo elevato all’ennesima potenza. Non più incolti capelloni e pantaloni a zampe d’elefante, ma individui puzzolenti ed iper-rissosi, contraddistinti da capelli talvolta cortissimi, sparati in aria e andanti a formare vere e proprie creste, in altri casi rasati a zero (à la naziskin, tanto per intenderci). Come la loro musica, d’altronde: pochi, scarni, ruvidi accordi, spesso suonati con molta approssimazione (per usare un eufemismo…) da parte di giovinastri scapestrati senza arte né parte, aventi come unica dichiarata e costante inclinazione, quella di una morbida (compiaciuta, quasi) auto-distruzione, atta a testimoniare il degrado sociale ed umano di una ‘generazione-X’, generazione senza futuro, pedissequamente sull’orlo del collasso sociale. Per gran parte degli addetti ai lavori, il Fenomeno Punk sembrava rappresentare più una specie di ‘Lazzaretto per ragazzi disperati e senza alcuna vocazione professionale’, che nuova linfa vitale per la comatosa scena-rock. In poco tempo, le ‘nuove leve’ si sbarazzano delle ‘vecchie’: tutto viene riportato ad un concetto di musica intesa come ‘primordiale’, senza fronzoli o pomposi tecnicismi, aspetto che, per certi versi, rendeva il Punk (sia come immediatezza e semplicità sonora) simile al Rock’n’Roll di 20 anni prima (1956 e dintorni). Ma le similitudini finiscono qui: diverse sono le modalità che spingono il punkster ad abbracciare una chitarra od a cantare sguaiatamente (anche questo un eufemismo…), rispetto al rock’n’roller della prima ora: in fin dei conti il Rock’N’Roll fu l’effetto collaterale provocato da un eccesso di perbenismo indotto dalla bigottissima Società Americana, dunque un contesto assai differente dal sentimento di vuoto e totale smarrimento generazionale che colpì il Regno Unito nella seconda metà degli anni ’70. Sempre di ribellione si tratta, ma, ripeto, con stilemi ed approcci radicalmente diversi.  

 

Analogamente al Punk, la Disco Music, facente capo agli stilemi Soul e Funky, darà il colpo di grazia definitivo al vecchio establishment rockistico, sancendo perentoriamente la ‘morte del rock’. E l’inizio di un nuovo modo di concepire la musica.

‘FUCK THE ART, WE WANNA DANCE’ era la frase-manifesto dei disco-goers di allora. ‘Al diavolo l’arte, vogliamo ballare, ora!’ Affermazione che meglio interpretava la voglia di cambiamento di cui il popolo ardentemente necessitava. Al bando orpelli, suites interminabili, testi astrusi ed irritanti e grasse auto-celebrazioni di sorta! Ciò di cui si ha bisogno ora è un ritorno alla funzione-base della Musica: l’intrattenimento: che in tale contesto si tradurrà in sfrenati balli dentro coloratissimi e luccicanti stanzoni chiamati ‘discoteche’, con l’aggiunta di un’inedita e curiosa figura: il Disk-Jockey (DJ), colui cioè che, con estro e grande disinvoltura scenica, ricopre la cruciale funzione di ‘metronomo emotivo’ per tutti coloro che si trovano al centro della pista, avvolti da bagni di sudore, assuefatti da uno ‘strano’ morbo che tempo dopo assumerà la definitiva ed iconografica definizione di ‘Febbre del Sabato Sera’.

 

Infine, tra l’immenso calderone di generi e sotto-generi di questo decennio, una menzione d’onore va al Reggae, una contagiosa musica di matrice caraibica (riconoscibilissima per via del suo intercedere ritmico ‘in levare’), eletta a musica di culto (a tutt’oggi una delle ‘religioni’ preferite dai giovani), e ciò grazie ai suoi più celebrati alfieri e portavoce: Jimmy Cliff, Peter Tosh… e naturalmente un certo Bob Marley. Parallelamente a Punk e Disco-Music, il Reggae costituì una dimensione parallela felice, mai eccessivamente corrotta da tendenze musicali di stampo anglo-americano; non a caso esso venne eletto a ‘musica da ballo’ in ostruzione all’inflazionatissima e detestata ‘disco’ di K.C. & The Sunshine Band, Gloria Gaynor, Donna Summer, Van McCoy, Santa Esmeralda, Bee Gees e miriadi di altri cloni. Detto in termini più… ‘politici’: se eri di Destra, aderivi alla Disco-Music, se eri di Sinistra ballavi al ritmo in levare del Reggae.

Ça va sans dire.

 

Ma… il glorioso Pop lasciato in eredità dai Beatles?… Che ne è stato? Dimenticato, resettato per sempre, considerato troppo ‘retro’ ed anti-avanguardistico, oppure sciocco ed immaturo?…

Niente affatto! Sebbene la corrente musicale commerciale par excellence verrà relegata nelle seconde file dell’iconografia-rock, pagine di meraviglioso quanto sontuoso Pop certo non mancheranno: ne sono testimonianza i Badfinger (prima band scritturata dalla ‘Apple’, la casa discografica fondata dai Beatles), autori di un ‘power-rock’ raramente banale anche se non particolarmente originale; Pete Ham, il principale e migliore compositore della band, avrebbe potuto benissimo assurgere a ‘Novello McCartney’ (almeno per la straordinaria propensione di Ham per la creazione di poderose e melanconiche ballate, nella migliore tradizione maccartiana), non avesse optato per una tragica fine (suicidio) nel 1975; i 10cc, anch’essi autori di squisito pop dalle reminiscenze maccartiane (in particolar modo del McCartney-periodo-Abbey-Road) ma contraddistinto, soprattutto, da un intelligentissimo quanto inusuale (per un gruppo rock) senso dell’umorismo, autentici campioni dello sberleffo: la sintesi di tutte queste caratteristiche la troverete nel loro hit più celebrato, ‘I’m Not In Love’: ve ne accorgerete una volta letto il testo e realizzato l’ilare contrasto che viene a crearsi tra il testo medesimo e l’atmosfera romantica e zuccherosa della melodia.

Beh, a dire la verità, un artista Pop di primissimo rango c’è stato: Reginald Kenneth Dwight, in arte Elton John, uno dei massimi compositori melodici del Ventesimo Secolo. E non è una esagerazione, la mia: la fertilità e qualità creativa che segnò la sua carriera per tutta la prima parte dei Settanta lo fa assurgere quasi a livelli beatlesiani; un Genio del Pop forse troppo poco considerato e mai abbastanza rivalutato, a causa, anche, di molte mediocri produzioni legate ad una sempre più cronica mancanza di ispirazione.

 

Gli anni ’80 alle porte, ora. Gli anni ’80 etichettati come ‘gli anni del riflusso’, del culto dell’immagine, di musica mediocrissima e patinata. Si, gli Eighties: il decennio dei videoclips e del vuoto esistenziale.

Ma questa… come si suol dire… è un’altra storia. Che, visto il mio estremo astio verso quell’infausto decennio, vi verrà raccontata da altri… Per mia (e vostra!) fortuna.

 

Dunque, questo è il mio ‘sguardo critico’ sulla Musica-Rock degli anni ’70. Molti altri nomi, e molti altri generi e tendenze avrei potuto (o dovuto) elencare: ho scelto questa modalità al fine di non creare troppa confusione sia al sottoscritto che al lettore (soprattutto al sottoscritto! Ah ah ah ah). Le retrospettive e riassunti di una determinata epoca o corrente non mi sono mai piaciute. E’ che mi è stato chiesto di farlo: ci ho messo un po’, ma alla fine… mi ritrovo ad avere un mini-saggio in più nella bacheca di articoli e recensioni a firma Alan J-K-68 Tasselli alias Luca Comanducci… Non poi così male, suvvia. A chi si vorrà cimentare nell’ennesima retrospettiva socio-musical-storica sul Rock targato-Seventies, beh, non può che andare il mio sportivo plauso.

Nel caso il vostro desiderio fosse stato quello di imbattervi nella più precisa e certosina analisi critica sul Rock anni ’70, beh, avete sbagliato articolo (ed autore): cercate in Rete, e vedrete che troverete quel che davvero cercate.

Per il momento assorbitevi le mie considerazioni.

Possibilmente senza insultare.

Grazie.

 

Alan J-K-68 Tasselli alias Luca Comanducci

 

Questo testo è depositato presso www.neteditor.it e quindi coperto da diritti d'autore. 
Esso non potrà essere riprodotto totalmente o parzialmente senza il consenso dell'autore 
stesso.